venerdì 9 marzo 2012
​La sategia della vendetta attuata fra il 1945 e il '47 dagli ex partigiani a Savona e provincia si traduce persino in delitti efferati di intere famiglie.
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La metodica del terrore, a Savo­na, dopo la Liberazione, fu tal­mente diffusa e generalizzata, che non si può far a meno di conside­rare che quella stagione, durata fino al 1947, rappresentò non soltanto la prova generale della tanto attesa rivo­luzione comunista, ma anche la fero­ce anticipazione della stagione del terrorismo che avrebbe insanguinato l’Italia negli anni Settanta. Quanto accadde nella provincia ligu­re è di una gravità eccezionale e non è mai stato interamente raccontato. U­na strage continua, che massacrò i vinti, i fascisti, colpendo tuttavia an­che esponenti della classe agiata, quegli odiati borghesi che rappresen­tavano l’ostacolo principale all’in­staurazione della dittatura del prole­tariato. Dalla pratica dell’omicidio di massa, si passò a un certo punto all’a­zione contro bersagli individuali. So­no i cosiddetti delitti della 'pistola si­lenziosa', dal nome della 7,65, di fab­bricazione inglese, usata dagli assas­sini, coperti dal Partito comunista, per ammazzare ex fascisti. Questi de­litti, iniziati nel dicembre 1945, con l’uccisione di un ex milite della Briga­ta Nera, Giuseppe Wingler, si conclu­sero solo la vigilia di Ferragosto del ’47, quando vittima di 'pistola silen­ziosa' fu un’ex ausiliaria repubblichi­na di 23 anni, Rosa Amodio. Senten­dosi vindici delle violenze fasciste, i sicari rossi agirono un po’ come ac­cadde con la Volante Rossa a Milano. Solo che quando, la sera del 16 no­vembre 1946, nel mirino dei killer finì il commissario della locale Questura, Amilcare Salemi, che indagava su quegli omicidi, le istituzioni demo­cratiche si accorsero finalmente che si era alzato troppo il tiro e che biso­gnava fermare quella spirale di vio­lenza che non risparmiava neppure i servitori dello Stato. Anche il Pci, finalmente, si mosse: co­me ha scritto un giornalista del quoti­diano La Stampa , Massimo Numa, autore del libro-inchiesta La stagione del sangue (1992), la direzione del partito inviò da Roma degli ispettori, nel tentativo estremo di «tenere sotto controllo le 'schegge impazzite'» e porre un freno alla lunga serie «di de­litti che sconcertava e intimoriva l’o­pinione pubblica». Ma si era oramai nel 1948. I fatti di sangue accaduti nel dopoguerra colpiscono per le moda­lità agghiaccianti con cui furono commessi. È il caso della strage della fami­glia Biamonti, agiati borghesi del quartiere savonese di Legi­no, originari di Cogoleto, un centro del Ponente genovese. Tutti stermina­ti: il capofamiglia, il capitano della Croce Rossa Domingo Biamonti, i­scritto al Partito fascista repubblica­no, la moglie, contessa Angiola Nasel­li Feo, la loro figlia, Angela Maria, e persino la domestica, Maria Madda­lena Nervo. La loro eliminazione fu legata a motivi di risentimento perso­nale, che si possono riassumere con il termine 'odio di classe'. Tutto ebbe origine con la sistemazione, in due lo­cali di villa Biamonti, della vedova di un partigiano, Andreina Ghione, che aveva avuto la casa disastrata dai bombardamenti. Dopo il 25 aprile ’45, la donna, spalleggiata dal parti­giano Luigi Rossi 'Toni', pretese di 'allargarsi' occupando anche alcuni locali del piano nobile della villa. Do­mingo Biamonti andò a protestare in Prefettura per quello che riteneva fos­se un sopruso. Era il 14 maggio ’45. La sera stessa, un gruppo di partigiani, guidato dal Rossi, bussò alla porta di casa Biamonti e prelevò i tre compo­nenti del nucleo famigliare, più la ca­meriera. La contessa, prima di lascia­re il suo domicilio, prese con sé una borsa contenente molti gioielli e de­naro: borsa che gli fu subito sottratta dal partigiano Mario Bergamasco. I Biamonti furono dapprima rinchiusi nel campo di prigionia di Legino, poi in quello di Segno. La notte tra il 18 e il 19 maggio, furono portati al cimite­ro di Zinola e fucilati. I corpi vennero subito sepolti in una fossa del cam­posanto. Il fossore del cimitero, ob­bligato a intervenire per l’inumazio­ne clandestina, obiettò che sarebbe stato meglio usare delle casse di le­gno. Gli fu risposto, in dialetto ligure: «Macché bare, così: come i cani». La villa di Legino venne depredata di tutto, dall’argenteria alla biancheria: mobili e indumenti furono trovati nelle case del Rossi e della Ghione. Al processo per questo odioso delit­to, Luigi Rossi fu condannato, nei primi due gradi di giudizio, a 27 anni di carcere, mentre il Bergamasco, as­solto in primo grado, fu condannato alla stessa pena del Rossi in appello. Per depistare le indagini, gli esecuto­ri del delitto avevano piantato sulla fossa dei Biamonti una finta lapide sulla quale era scritto il nome di una persona inesistente: 'Toso Luigi di anni 84'. L’ex fossore del cimitero di Zinola, Bruno Bruzzone, nel 1949 riesumò i Biamonti. Raccontò che i corpi erano uniti tra loro. Ricorse a un’espressione cruda: «Hanno bolli­to insieme». C aso simile a quello dei Bia­monti, fu l’eccidio della fami­glia Turchi, in località cascina Berta, nella frazione Ciatti, sulle colli­ne di Savona. Il capofamiglia, Flami­nio Turchi, operaio, allevava un greg­ge e con la moglie, Caterina Carlevari, coltivava come affittuario un vasto appezzamento di terra. La coppia a­veva tre figlie: Giuseppina, Pierina e Maria, tutte tra i 20 e i 25 anni. Due di loro frequentavano circoli fascisti e, nelle giornate dell’insurrezione, per rappresaglia, furono rapate. Il padre si recò a protestare alla sede del Cln. Per tutta risposta, la notte del 13 maggio, i cinque furono abbattuti a raffiche di mitra. Alcuni operai che lavoravano alla stazione delle Funivie situata po­co sotto la cascina dei Turchi, udirono le sventagliate, poi colpi isolati, infine lamenti come di un cane in agonia. Alle prime luci dell’alba, gli operai si i­nerpicarono lungo il sentiero che giunge alla cascina Berta dove trova­rono quattro corpi privi di vita: nel­l’aia giaceva esanime anche il cane. Mancava all’appello la figlia minore, Maria. Mentre ancora speravano si fosse salvata, la trovarono poco di­stante: la ragazza, gravemente ferita, era riuscita a trascinarsi fino alla stra­da sottostante, ma era morta dissan­guata. Non meno raccapricciante il barbaro assassinio, avvenuto il 28 aprile ’45, di una ragazza di neppure quattordici anni, Giuseppina Ghersi, colpevole soltanto di aver aderito al Gruppo femminile fascista di Savona, e di aver inviato a Mussolini un tema apologe­tico. Rinchiusa nel campo di prigionia di Legino, la giovane fu dapprima vio­lentata, e quindi massacrata a calci; infine, mentre era agonizzante a terra, venne 'finita' con un colpo di pistola alla nuca da un partigiano di Bergeggi. Il suo corpo straziato, il primo di una fila di sette cadaveri, nelle ore seguen­ti fu esposto all’esterno del cimitero di Zinola: il capo rasato era stato coperto di vernice antiruggine rossa. L a lunga scia di sangue continuò a macchiare Savona ancora per molto. Non solo i fascisti, o loro simpatizzanti, finirono vittime della violenza politica dei 'vincitori'. La se­ra del 10 novembre ’45, il dottor Fran­cesco Negro, 49 anni, ufficiale sanita­rio del Comune di Savona, stava re­candosi in bicicletta a trovare alcuni amici. Il medico, antifascista e sociali­sta, avendo compilato gli atti dei mor­ti ammazzati nelle vie della città, o al cimitero di Zinola, aveva più volte de­nunciato pubblicamente quei misfat­ti: «Neppure i fascisti si comportava­no così!». Verso le 20,30, Negro fu fer­mato da due individui armati e con il viso coperto di fuliggine, che il medi­co poté comunque riconoscere. I due personaggi lo invitarono a scendere nel greto del fiume Letimbro, «per di­scutere ». Negro si rifiutò e tentò di darsi alla fu­ga, ma fu raggiunto alle spalle e al­l’addome da due colpi di pistola. L’uomo, mentre gli aggressori si dile­guavano, riuscì a trascinarsi per qual­che metro chiedendo aiuto. Ricovera­to in gravissime condizioni all’ospe­dale San Paolo di Savona, morì l’indo­mani mattina. Prima di spirare, riferì ai familiari i nomi dei suoi assassini. I parenti, tuttavia, per paura, non han­no mai osato chiedere giustizia. Così un altro dei molti delitti è rimasto im­punito.
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