martedì 1 dicembre 2009
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«I contributi di Jürgen Habermas sulla religione negli ultimi dieci anni, culminati con la discussione pubblica del 2004 con l’allora cardinale Ratzinger, sono stati letti un po’ affrettatamente come un tardo tributo alla religione, a volte addirittura come una tacita sconfessione del laicismo o di principi prima riconosciuti rigorosamente, come l’indipendenza della morale dall’ethos storico e concreto di una società. E le valutazioni degli ultimi sviluppi del suo pensiero sono state spesso contrastanti, a seconda della prospettiva, laica o confessionale, da cui sono state fatte». Gerardo Cunico, docente di filosofia teoretica e filosofia del dialogo interreligioso all’Università di Genova, ha appena scritto un libro, Lettura di Habermas (Queriniana, pagine 180, euro 12) per chiarire proprio il rapporto tra «filosofia e religione nella società post-secolare» nell’opera del filosofo tedesco, erede della tradizione speculativa della Scuola di Francoforte e, dall’alto dei suoi 80 anni compiuti lo scorso giugno, uno dei grandi nomi del pensiero continentale contemporaneo.Professore, si può considerare Habermas il "primus inter pares" fra gli atei devoti?«Nessuno può escludere un suo coinvolgimento emozionale personale, ma stando ai suoi scritti non è lecito imputargli una svolta "devota". Habermas non cessa di dichiararsi, usando l’espressione di Max Weber, "privo di sensibilità musicale per la religione" e anche in una recente intervista non ha mancato di sottolineare ironicamente: "Sono invecchiato, ma non sono diventato devoto"».Su cosa si fonda allora il suo interesse crescente per il tema religioso?«Pur non rinunciando mai a un sostanziale ateismo filosofico, Habermas ha finito per ammettere la necessità di un ancoraggio della morale alla vita etica concreta della comunità politica, affinché le strutture astratte di giudizio – sulla giustizia – possano avere efficacia e strutturare le relazioni sia informali che istituzionali fra le persone. Ha dovuto così prendere atto dell’importanza delle religioni, del loro ruolo e della loro presenza, che non è venuta meno nonostante il ridimensionamento portato dalla secolarizzazione. A suo stesso dire, comunque, Habermas non apprezza la religione in quanto tale, ma solo per le sue ricadute etico-politiche, valorizzabili in una prospettiva sociologica. È quindi dalla preoccupazione per una base etica della società in pericolo che viene l’offerta ai credenti di una possibile alleanza».Quali sono i pregi di questa "offerta"?«Da un lato c’è la richiesta alle comunità religiose di andare oltre il semplice adattamento alla tolleranza imposta dallo Stato laico e di trovare all’interno del proprio patrimonio di idee le giustificazioni di un ordinamento universalistico e di una morale egualitaria, quindi del rispetto della morale pubblica laica: una richiesta scontata partendo dalle posizioni di Habermas. Dall’altro, però, ai cittadini laici è chiesto non solo di tollerare le comunità religiose, ma anche di comprendere che non possono pretendere da queste il consenso su tutte le loro convinzioni e neppure presumere di essere in una posizione culturalmente superiore: devono anzi ammettere la possibile razionalità dei contenuti religiosi, devono riconoscere ai credenti il diritto di partecipare come tali alle discussioni pubbliche e persino contribuire alla traduzione dei loro contributi in un linguaggio razionale. Che è un’apertura considerevole».Quali invece i limiti? «Nella elaborazione di Habermas resta un rapporto irrisolto tra ragione laica, intesa come razionalità strettamente procedurale, e fede. La prima deve considerare la religione come qualcosa di estraneo e la filosofia, che della ragione laica è l’organo primario e l’espressione più diretta, non può asserire nulla che contrasti con tale estraneità. Così l’agnosticismo metafisico-religioso della filosofia rispetto ai contenuti dottrinali si congiunge con un agnosticismo rispetto all’atteggiamento stesso proprio della fede religiosa. In sostanza, fede e ragione laica restano, teoreticamente, due estranee. L’approccio di Habermas alla religione evita accuratamente, anzi esclude categoricamente il compito di affrontare sul piano filosofico temi religiosi. Habermas non vuol fare filosofia della religione. Non è un caso che i pochi spunti di una comprensione propriamente filosofica della religione da lui sviluppati non si rifanno a Kant, che pure è l’autore col quale più a lungo si confronta, ma a Kierkegaard, nel quale si trova una paradossale via filosofica alla fede che alla fine dovrebbe liberare dalla filosofia stessa».Com’è stata visto il crescente interesse di Habermas per la religione – seppur con tutti questi limiti – da parte dei discepoli e degli studiosi che si rifanno al suo pensiero?«Per quanto riguarda la proposta di una teoria morale che cerchi nuovamente l’aggancio con un ethos sociale storico e che cerchi di trarre linfa dalle correnti religiose, gli habermasiani più stretti hanno visto tutto ciò come un tradimento. E in effetti, per chi come Habermas ha operato un taglio quasi disumano tra la morale della giustizia e l’etica del valore, della felicità, del bene in generale, il tornare indietro è per lo meno problematico».
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