lunedì 18 maggio 2015
COMMENTA E CONDIVIDI
«Icolori sono azioni della luce, azioni e passioni»: così Goethe [Francoforte 1749 - Weimar 1832] nella Prefazione alla sua Teoria dei colori (1810), e così la sua vastissima opera di poeta, drammaturgo, scienziato, viaggiatore, demiurgo del XIX secolo. Nel suo secondo Faust (1825-1831), nel concitato dialogo del II atto tra Mefistofele, le Sirene, le Sfingi, una Sirena esclama: «Ah, perché sciuparci il gusto / qui, fra il Brutto prodigioso? / Noi veniamo in punto giusto / con un canto armonioso». C’è nell’opera di Goethe l’anelito a una ricomposizione armonica del creato, una vocazione panica espressa sin dal primo Faust (1772-1808): «Faust solo: "Mi hai dato per regno la splendida Natura, il potere di sentirla. Di goderla. Tu permetti che non soltanto la contempli con fredda ammirazione: tu mi concedi di  guardare nel suo seno profondo come nel petto di un amico. Tu fai passare davanti a me la serie degli esseri viventi, e m’insegni a riconoscere come dei fratelli nella macchia silente, nell’aria e nell’acqua. […] Oh, che l’uomo non possa attingere la perfezione, bene ora lo sento. Accanto a questa beatitudine che sempre più mi avvicina agli dei, tu mi desti il compagno del quale  ormai non posso più fare a meno, anche se egli, freddo e protervo, mi abbassa davanti a me stesso"». Faust e Mefistofele, un groviglio di pulsioni s’intreccia – inestricabile – nella “Notte di Santa Valpurga”: «Vedo gli alberi inseguirsi / e trascorrer via veloci, / e piegar vedo le rupi / e russare e soffiar cupi / della roccia i lunghi nasi. / […] /E son forse salamandre / quelle là, in mezzo alla macchia? / Gambe lunghe, grosse pance! / Dalla roccia, dalla sabbia, / come fosser dei serpenti, / le radici spuntan fuori». Con accenti paralleli al contemporaneo Ernst Theodor Amadeus Hoffmann, al fantastico e al notturno s’associano il mitico e - non meno - il rimosso, così che in molti punti Freud sembra già vicino; ma, in fondo, l’imagerie teatrale prevale e non è infatti un caso che il Faust sia subito messo in scena da Spohr nel 1814.  Su questo fondale si delineano I dolori del giovane Werther, 1774, modello – per tutta l’età romantica – del dissidio tra passione e ragione, dai quali lo stesso Foscolo trarrà argomento per le Ultime lettere di Jacopo Ortis; il testo segna davvero la fine dell’età classica per dare avvio a una chiaroscurata epoca di rotture senza ricomposizioni; lo riconoscerà lo stesso protagonista con una formula epigrafica: «Ossian ha soppiantato Omero nel mio cuore» [12 ottobre 1772]; davvero «il moderno dopo il sublime», come chioserà Ezio Raimondi. Ecco, ora «la magnifica natura mi sta davanti rigida come un quadretto laccato»: è nato l’artificiato “pittoresco” nel quale s’esaurirà, più tardi, nei portenti della "camera oscura portatile» del viaggiatore inglese, il lungo ridisegnare il parco che ritma le vicende delle Affinità elettive (parte II, cap. X).Il viaggio in Italia doveva essere medicina e ristoro di classica serenità, e Goethe la cercò – rara eccezione nei percorsi del Kavalierstour – sino nella Magna Grecia, a Palermo e in Sicilia, alla ricerca di una sola, perfetta origine: «Alla presenza di tante forme nuove e rinnovellate, mi saltò  in testa la mia antica fantasia: perché, in tanta ricchezza di vegetazione, non dovrei scoprire la Urpflanze, la pianta originaria? Una tale pianta ci deve pur essere: diversamente, come potrei riconoscere che questa o quella figura è una pianta, se non fossero tutte formate sopra un solo modello?» (Palermo, martedì 17 aprile 1787). E in Venezia aveva raccolto, in pochi giorni, tutto il retaggio del XVIII secolo: assiste (il 10 ottobre 1786) al teatro San Luca alla rappresentazione delle Baruffe chiozzotte di Goldoni, colleziona piante e foglie marine al Lido (parte di quel vasto progetto che darà luogo ai saggi botanici e alla Metamorfosi delle piante), si paga – con disincantata lucidità -il canto dei gondolieri sulle “arie del Tasso” che quarant’anni prima (1743-44) Jean-Jacques Rousseau credeva ancora frutto  di spontanea e autentica memoria collettiva; annota infine che «qui la gente va in giro quasi tutto l’anno con la maschera sul viso». E su tutto l’immensa ironia della storia, che con amaro sorriso – precedendo il Leopardi – egli contempla a Pompei: «Domenica siamo andati a Pompei. Molte sventure sono accadute a questo mondo; ma poche che abbiano procurato ai posteri tanta gioia» (13 marzo 1787).Di quel viaggio resterà compendio, nei suoi aneliti e nella impossibile conciliazione di passione e misura, la tragedia Torquato Tasso, una delle opere teatrali più intense di Goethe, in quel cercare vanamente equilibrio e decoro; per la Principessa d’Este, non c’è più età dell’oro, ma ancora è possibile trovare «ciò che s’addice», il “congruo” del limite: «Tuttavia / convengono fraterni cuori / e insieme / dividono la gioia del creato; / solo nel motto, amico, una parola / muta: lecito è quel che s’addice» (atto II, sc. I). Ma per il poeta innamorato questo è troppo poco: «Ora ti riconosco! Intera si apre / l’anima e adora te sola in eterno. / Di tenerezza si ricolma il cuore. / È lei, lei qui davanti a me. Che sensi! / È turbamento che m’attira a te? / È delirio? È un sublime intimo lume» (atto V, sc. 4). E così per un istante, anche il povero Tasso, deluso e furente, vive dei moti di Faust, segreto fuoco di tutta l’opera goethiana: «Io mi sento le più segrete fibre / infrante e solo vivo per sentirlo. / Disperato furore m’incatena / e nel tormento dell’inferno, ove / io mi vo consumando, la bestemmia / è appena un fioco lagno di dolore» (atto V, sc. 5 e ultima).In fondo Goethe ha, prima di tutti, inteso, la crisi della modernità, dilacerata – se conscia – tra l’ansia conquistatrice di Prometeo, di progresso e esperienza, e la perplessità responsabile del fratello Epimeteo, sul quale si china, compatendo e ammirando, l’alfiere delle “umane opere”: «Prometeo si avvicina a Epimeteo addormentato: “Sonnambulo, pieno di cure, tutto scrupolo! Io ti compiango, eppure lodo la tua vocazione. Sopportare è il tuo mestiere, ripugnando e patendo”» (Pandora, atto I). Il XIX e il XX secolo furono il tempo di Prometeo; ma ora urge il ritorno di Epimeteo.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: