mercoledì 15 ottobre 2014
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La salvezza di oltre trentamila ebrei italiani ai tempi della Shoah, a fronte della presenza di oltre 500 «Giusti» del nostro Paese riconosciuti tali secondo i criteri di Yad Vashem, è davvero una questione storiografica rilevante da affrontare con urgenza nella sua trama generale? E il contributo della Chiesa, con la sua rete di istituti aperti al soccorso degli ebrei, con i suoi vescovi alla Boetto o Dalla Costa, frati come Benoit Marie o padre Brunacci, preti come Oddo Stocco o don Repetto, laici come Focherini e Fraccon o Arnaldi, i non pochi parroci e monache o suore, operanti in silenzio da Roma a Genova, da Fiume a Nonantola, da Firenze ad Assisi, da Milano al confine svizzero, davvero è un capitolo ancora da scrivere, che anche per le polemiche su Pio XII non ha ancora il suo spazio nella storia della Resistenza?  Ne è convinta Antonia Grasselli, da anni alle prese con questi argomenti, che in un saggio sulla rivista Respublica titolato «La prospettiva storiografica delle azioni di salvataggio, dei salvatori e dei salvati. Il soccorso agli ebrei in Italia (1943-45)» espone le sue riflessioni, accompagnate da sintesi, dati, percentuali – attinte anche a lavori di Liliana Picciotto – sino ad offrire un approccio critico al tema della «memoria dei Giusti» nelle più ricorrenti declinazioni. Un po’ come Yagil Limore (debitamente citata), che nel suo Chrétiens et Juifs sous Vichy, sauvetage et désobéissance civile (Cerf 2005), dava rilievo al fatto che in Francia, nonostante le leggi antisemite, due terzi della popolazione si erano salvati (…ma parliamo pur sempre di un «resto» di quasi ottantamila vittime!) non senza l’impegno del cattolicesimo francese (con le sue strutture trasformate in rifugi e gli interventi coraggiosi di oltre la metà dei vescovi), anche Grasselli chiede per il 'caso Italia' la ricostruzione di un quadro unitario complessivo. Solo così, sostiene, le storie dei giusti (riconosciuti o meno), collocate nei loro retroterra, si caricano del loro senso storico, evitando i rischi di banalizzazione individuati per la memoria della Shoah da autori come Georges Besoussan.  Un interrogativo però si affaccia in queste pagine e sta nella reale possibilità di ricostruzioni contestualizzate per ogni salvataggio, compresi i casi anonimi o della gente comune. E qui Grasselli risponde che non esiste l’uomo comune, ma solo l’uomo, come tale soggetto di storia che lascia sempre traccia di sé, del suo ambiente, oggettivamente consapevole delle sue scelte, debitrici pure di una cultura. Insomma, evidentemente senza alcuna considerazione per le neuroscienze, e ben convinta che lo studio dei Giusti e delle loro azioni non possa essere ridotto a una storia di individui e di gesti di cui non si cerca il nesso e la ragion d’essere nel contesto delle comunità di appartenenza, la studiosa chiede di riconoscere alla memoria dei Giusti una «prospettiva storiografica» nella direzione di una «storia globale». Una proposta, formulata con timbri piuttosto didattico-pedagogici, che tuttavia cozza un po’ con la definizione di Giusto secondo Yad Vashem: storicizzante il concetto di uomo giusto peculiare della cultura religiosa ebraica in relazione all’Olocausto e che in altri contesti perde il suo significato. Resta pur vero che sulla collina di Gerusalemme le priorità stanno nell’espressione della riconoscenza, nell’indicazione di modelli possibili per il mondo, e che le finalità perseguite dalla Commissione dei Giusti non sono quelle di chi ambisce a considerare il salvataggio degli ebrei come fenomeno sociale, ad andare persino oltre l’azione del soccorso meritevole, scavando nelle vicende precedenti o successive.  Detto questo, seguendo il saggio in esame, dopo pagine dedicate alle reti di aiuto (specialmente cattoliche) e a dinamiche soprattutto collettive (insomma basta con gli... eroi solitari), pur riconosciuti i meriti sostanziali di Yad Vashem, nelle conclusioni, torna l’appello leit motiv del testo: superare «la dicotomia tra azioni di salvataggio e Giusti», riconoscere a questa peculiare memoria «le caratteristiche di una prospettiva storiografica secondo cui leggere le storie nazionali, per completare la memoria collettiva». Che in fondo, per la Grasselli, significa pure reclamare la specificità di un impegno della Chiesa poco riconosciuto a settant’anni dalla guerra e palese – più che nel dibattito Chiesa-Shoah – nelle ricerche sugli ebrei sotto l’occupazione nazista. Resta sullo sfondo la questione della memoria nella distinzione concettuale todoroviana: quella tout court 'letterale' (spesso gestita sull’autocentramento e monumentalizzazione della Shoah), e quella 'esemplare', con rimando all’idea di giustizia, capace di uscire dalla sua unicità, una memoria sganciata da fatti cristallizzati nel tempo occasione di analogie dinamiche. Chiosa Grasselli: «Quest’operazione intellettuale può essere utile… Deve però essere chiarito che, così, si abbandona il piano della storiografia ed è in agguato un rischio in cui si può cadere molto facilmente: scambiare l’analisi storica di un fenomeno con l’individuazione di modelli di comportamento e di cittadinanza. Ma questi modelli decontestualizzati, fuori dalla società e dalla cultura che li ha prodotti, sono astratti e vuoti e il pericolo di un loro uso strumentale è effettivo». Si può darle ragione? Il dibattito è aperto.
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