venerdì 23 giugno 2023
L'artista commenta l'udienza di questa mattina in Cappella Sistina: «Il Papa ha definito con esattezza ciò che che un artista sperimenta nel suo lavoro. Artisti e Chiesa sono al servizio della verità»
Gian Maria Tosatti

Gian Maria Tosatti - Lorenzo Palmieri

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«Quando l’ho incontrato a tu per tu gli ho detto che aveva pronunciato con esattezza il valore e il senso del nostro lavoro». Per Gian Maria Tosatti il discorso agli artisti pronunciato questa mattina da papa Francesco nella cappella Sistina è stato di una lucidità rara, «consapevole del lavoro dell’artista più di tanti artisti che conosco».

Gian Maria Tosatti (1980), anche giornalista e saggista, è una delle personalità più interessanti e engagé del panorama artistico italiano e non solo. È stato protagonista del padiglione Italia all’ultima Biennale arti visive, è direttore artistico della Quadriennale di Roma e attualmente presenta al Ciac di Foligno un grande intervento site specific. Nel suo lavoro non ha mai avuto la paura di usare il termine “sacro”.

È un discorso che l’ha spiazzata?

«Paradossalmente, no: e proprio perché mi ci sono riconosciuto completamente. Gli artisti, ho avuto modo di dirlo più volte, sono un ordine votato alla verità. Lo è anche la Chiesa. La Chiesa alla verità della Parola, noi a una verità più empirica, non rivelata. Ma queste due finiscono per coincidere, perché alla fine la verità è una. Oggi ho sentito dire con molta esattezza ciò che che un artista sperimenta nel suo lavoro: il cuore della questione è proprio il “partecipare della passione generativa di Dio”. Questa grande consonanza è possibile perché artisti e Chiesa portano avanti una pratica identica, che è riconsegnare nelle mani dell’uomo il proprio destino».

Ora come artisti cosa vi aspettate?

«È una domanda complessa. C’è molta strada da fare. In questi decenni, se non secoli, di percorsi separati tra arte e Chiesa, si è accumulata una distanza. Soprattutto l’artista ha sviluppato una nuova identità, un nuovo ruolo. L’artista oggi non è semplicemente chi riceve una commissione ma è un ricercatore a sua volta. Perché la Chiesa possa lavorare bene con gli artisti e con la loro libertà acquisita, credo che ora sia molto importante una messa in ascolto. È necessario capire che se pure manca l’iconografia – il crocifisso, la natività – a cui siamo abituati non è detto che siano assenti la tradizione, la dimensione persino l’ortodossia cristiana. Per 10 anni io ho lavorato quasi esclusivamente sul linguaggio del cristianesimo, penso ad esempio alla serie Sette stagioni dello spirito. Eppure all’interno non vi si trova nessuna simbologia evidente. C’è stata una rielaborazione, che non toglie nulla della temperatura forte e del rapporto con quelli che sono gli archetipi profondi del cristianesimo. Mi aspetto che la Chiesa si metta in ascolto dei nuovi linguaggi. Di contro, credo che anche gli artisti debbano mettersi in ascolto, porsi delle questioni e capire dove la Chiesa sta andando e cosa sta dicendo. L’ascolto deve avvenire da entrambe le parti».

Qual è l'interesse da parte degli artisti per questi temi?

«C’è un reale interesse nei confronti di Dio, che si sia credenti o no. Dio è un nodo a cui arrivano tutti quanti, perché ci domandiamo il senso della nostra vita, il senso dell’uomo. La Chiesa continua a portarci lì, perché è dove ci conduce il Vangelo tutte le domeniche. Se tendiamo il dialogo su questo piano, allora ci sarà sempre spazio. Certo, i non credenti non useranno il nome “Dio”, ma non cambia molto: alla fine il tutto che ci circonda esiste a prescindere da come lo chiamiamo. E poi c’è un’altra questione. La Chiesa è parte della nostra storia, e di quella dell’arte in particolare. La storia dell’anima dell’uomo europeo è scritta dentro le chiese. Si potrebbe dire che sia parte persino della famiglia. Come ha recentemente detto papa Francesco, la Chiesa è una istituzione che ha protetto la parola di Dio per duemila anni, ma ha anche coltivato la bellezza e la grazia, tutto ciò che per l’artista è necessario. Insomma, la Chiesa fa parte della famiglia, anche se sei il figlio ribelle».

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