venerdì 24 aprile 2020
Il 25 aprile ricordiamo i tre piccoli eroi esemplari del calcio vicentino, caduti combattendo: il sottotenente Frigo e i partigiani Galla protagonista del romanzo di Meneghello e il il portiere Carta
Armando Frigo al centro tra i fratelli Menti nel Vicenza alla fine degli anni '30

Armando Frigo al centro tra i fratelli Menti nel Vicenza alla fine degli anni '30 - archivio

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«Parlammo a lungo quel giorno seduti davanti al fuoco, nel fumo acre e profumato. Nello mi disse cosa pensava di fare finita la guerra, erano progetti seri e modesti, e io mi sentivo vagamente commosso...», così Luigi Meneghello nel suo favoloso romanzo, I piccoli maestri, descrive il personaggio di “Nello”, nome di battaglia di Gaetano Galla, uno degli eroi del calcio prestati alla Resistenza. Meneghello, vicentino di Malo (leggere il suo Libera nos a Malo), con Gaetano Galla era stato amico e compagno di lotte contro i nazifascisti. E la storia di “Nello” “partigiano-calciatore”, poco prima che il mondo si fermasse per il Coronavirus, era rimbalzata una sera d’inverno nel cuore di Vicenza. Seduto al tavolo della trattoria da Righetti assieme alle “memorie di cuoio”, Andrea Lazzari e Alessandro Lancellotti, ricordammo anche gli altri due eroici calciatori vicentini, il portiere Dino Carta e il centrocampista Armando Frigo. Così, camminando ancora idealmente sotto i portici deserti di Piazza dei Signori il racconto può iniziare. “Nello” Galla, era un ventenne iscritto al secondo anno di università (Ingegneria) quando con un gruppo di studenti «si erano riuniti sull’Altopiano di Asiago, intorno alla figura di Antonio Giuriolo, detto “Toni”», annota Edoardo Molinelli in Cuori partigiani. La storia dei calciatori professionisti nella Resistenza italiana( Hellnation libri). Quelli erano “i piccoli maestri”, e Gaetano assieme a Moretto cadde, il 5 giugno del 1944, durante i rastrellamenti, «sullo spalto crudo, davanti alla Valsugana», ricorda Meneghello. Una fine atroce, che lo scrittore chiosa con un lacerante «ma io non ne parlerò», così come non parla dell’unica presenza in prima squadra di Galla, debuttante a 18 anni in un Vicenza-Grion Pola della stagione calcistica 1936-’37. Era serie C, la stessa categoria in cui quasi mezzo secolo dopo con i biancorossi avrebbe fatto il suo esordio il 16enne Roberto Baggio. Ma questa è un’altra storia, e probabilmente Baggio, la fine di Galla, caduto da piccolo eroe esemplare dello sport (era stato anche un cestista oltre che calciatore), l’ha appresa da quella lapide commemorativa posta nello stadio Romeo Menti. Lì, figura anche il nome di Dino Carta, portiere nato e cresciuto nel vivaio del club berico. Nella stagione bellica 1943-’44 riuscì ad esordire in prima squadra e chiuse con tre presenze saltando però l’atteso derby contro il Verona per entrare a far parte della Brigata “Argiuna”. «E chi meglio di uno spericolato tra i pali per questa folle missione?», si chiesero quei partigiani che in un lampo lo scelsero per un compito assai delicato: arruolarsi nella polizia ausiliaria della Rsi e svolgere il doppio gioco dell’infiltrato.

Per un anno Dino Carta riuscì a fornire informazioni e armi provvidenziali per la Brigata “Argiuna”, fino a quando nell’ottobre del ’44 a Vicenza si presentò la famelica “Banda Carità”. Gli uomini dell’Ufficio Polizia investigativa fascista, guidati dallo spietato comandante Mario Carità, smascherarono il “portiere- partigiano” trascinandolo a Villa Triste. Qui Carta, subì, in silenzio, percosse e interrogatori estenuanti, fino all’illusoria via di fuga. Una pistola lasciata a bella posta su un tavolo e afferrata al volo lo indusse all’evasione. Ma era una finta di quelle che in campo di solito facevano gli attaccanti quando Carta usciva in tuffo sui piedi. Si scoprì poi che quello era stato un gioco assassino ordito dai fascisti Foggi e Zatti: la pistola era scarica, così fu facile per loro inseguirlo e braccarlo per sempre. Carta morì assassinato il 12 gennaio 1945. A quella data, già da tempo a Vicenza si raccontava della tragica fine dell’eroico «campione Frigo». L’«Herman d’America», fascistizzato in Armando, era nato a Clinton, nello stato americano dello Iowa dove i suoi genitori, Giovanni Frigo e Angelica Costa, erano emigrati dal piccolo borgo vicentino di Canove di Roana. Una famiglia laboriosa che si era arricchita con il commercio del loro negozio, e infatti il padre, tra l’invidia e l’ammirazione della comunità italiana, era noto come John il “Reich”, «John il ricco». “Reich” fu il soprannome che ereditò Armando. Con suo fratello “Jo” Gianni, una volta che i Frigo decisero di rientrare in Italia, venne spedito in collegio a Vicenza dove si diplomò ragioniere. Ma il suo futuro non era in banca, ma su un campo di calcio. Gli osservatori dell’Acivi lo inserirono nelle giovanili e la domenica del 28 aprile 1935, a 17 anni e nove mesi, l’interno di centrocampo Frigo collezionò la sua prima presenza in serie B in un Vicenza- Cremonese (1-0). Si trattava del secondo oriundo americano tesserato tra i professionisti, dopo il “pioniere”, Alfonso Negro, figlio di paisà sbarcato nel nostro campionato direttamente da Brooklin. L’ala Negro, che poi si laureò in Medicina, lasciò la Fiorentina l’anno prima che in viola arrivassero i “vicentini” Romeo Menti e Armando Frigo. Il “Reich”, salutò il Vicenza dopo 92 battaglie in campo e 36 reti realizzate. Un idolo della tifoseria biancorossa, specie dopo quell’epico derby vinto contro il Verona in cui l’indomito Frigo rimase in campo fino al 90’ e nonostante una spalla andata in frantumi («il braccio attaccato al collo») segnò la doppietta del 2-0 finale. Un’impresa che convinse il nobile presidente della Fiorentina, il conte Luigi Ridolfi Vay da Verrazzano, a portarlo in viola dove con Menti visse un paio di stagioni per lui non proprio esaltanti (da jolly di centrocampo e difensivo) culminate, dopo la cessione allo Spezia, con la decisione a sorpresa di abbandonare il calcio per arruolarsi nell’esercito. La sua coscienza era stata profondamente scossa quando in treno, di rientro a Vicenza, incontrò un giovane mutilato di guerra che l’aveva riconosciuto e gli disse: «Tu sì che sei fortunato Frigo, da professionista del pallone ti verrà risparmiata la chiamata alle armi». Lo spirito da “marines” che si portava dietro con le origini americane lo indusse ad abbandonare la casacca dei futuri “campioni d’Italia” del ’44, i Vigili del Fuoco di La Spezia, per indossare l’uniforme grigioverde. «Nel dicembre del 1941 ci trovammo insieme sotto le armi nello stesso Battaglione dell’83° Reggimento Fanteria a Pi-stoia», ricorda il commilitone Giulio Poggi che non aveva mai dimenticato quel giovane «già famoso nel campo dello sport, ma che non era un “montato”, ma un ragazzo molto simpatico » con il quale fu ammesso alla Scuola allievi ufficiali di Arezzo. Il sottotenente Frigo venne poi spedito al fronte, in Croazia, e con la stessa generosità del centrocampista entrato a far parte della Divisione Emilia accorse in aiuto degli Alpini della Taurinense che spalleggiavano i partigiani slavi a difesa della strada tra Crkvice e Ledenice. Un mese di difesa strenua prima di cadere in mano al nemico. Processato, davanti agli aguzzini nazisti si rifiutò di togliersi le mostrine dalla divisa e assieme agli altri tre ufficiali imprigionati, Pietro Arcuno, Luigi Sedea e un tal Valentini (o Tolentini i documenti sono andati smarriti), si accollarono ogni responsabilità salvando dalla condanna a morte i propri soldati. Nel magazzino adibito a forno in cui erano stati reclusi, Frigo e gli altri morirono da veri eroi, giustiziati con un colpo di pistola alla schiena, il 10 ottobre 1943. I tedeschi ordinarono che i corpi dei quattro militari italiani venissero esposti e mostrati al popolo di Crkvice, ma una pia donna, Annetta Samardzic e suo fratello Radovan, gli diedero degna sepoltura. «Prima di morire Armando aveva consegnato al suo caporale, Vasco Leoni, una sua fotografia sulla quale appose la dedica», racconta Poggi. Quella foto il caporale l’ha poi consegnata al fratello di Frigo, Gianni, che conserva anche la “tessera di calciatore della Fiorentina”: Armando l’aveva custodita nel portafoglio, fino alla fine.

È morto da piccolo maestro del pallone Armando Frigo, eppure così come l’esercito italiano non gli ha mai conferito la medaglia per il sacrificio prestato alla patria, anche il calcio gli ha negato l’intitolazione dello stadio di Vicenza che sull’onda emotiva della tragedia di Superga (4 maggio 1949) ha preso il nome del suo compagno, la leggenda granata Romeo Menti. Canove di Roana aveva rimediato con l’ “Armando Frigo”, il campo del paese che però è stato smantellato nel 2014. Gli eroi sono tutti giovani e belli, ma spesso anche dimenticati. Che questo 25 aprile ponga fine all’immeritato oblio di quei caduti del pallone.

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