Franco Capelletti, leggenda vivente del judo, domani compirà 80 anni
Avrebbe voluto fare il calciatore, ma è stato stregato da quella che un tempo si chiamava lotta giapponese. Così a 17 anni ha lasciato la porta e svestito i guanti, per salire sul tatami e indossare il judogi. In più di sessant’anni di carriera Franco Capelletti è diventato un’icona mondiale del judo, un uomo capace di stregare i guru giapponesi. Il maestro bresciano festeggia domani il suo ottantesimo compleanno, con sorriso, schiettezza e tanta ironia, ingredienti alla base della sua vita per lo sport. Un’esistenza passata lontano dalla luce dei riflettori, ma sempre con tanta voglia di lavorare per fare crescere il judo.
Capelletti, nato a Iseo sulla riva dell’omonimo lago, cresciuto a Cremona, ma da cinquant’anni di stanza a Brescia, è stato il primo italiano a conquistare il decimo dan, un riconoscimento che lo ha reso immortale nell’ambiente del judo. Al mondo sono infatti solo in due viventi a poter vantare questo risultato: oltre a Capelletti lo scozzese George Kerr. Il maestro bresciano ama definirsi «un ragazzo di prima della guerra, di una generazione che ha costruito il presente facendo tesoro del passato e sognando un futuro migliore». E dice di aver perso la testa per il judo, perché questo sport «riesce a prendere completamente una persona, facendo conoscere i propri limiti e cercando di migliorarli».
Un personaggio, insomma, capace di scomodare pure l’imperatore del Giappone, Akihito, che cinque anni fa gli conferì l’Ordine del Sol Levante, Raggi in oro con Rosetta, per aver contribuito «alla diffusione del judo a ogni livello», prodigandosi «nell’educazione delle nuove leve, tra cui si annoverano anche vincitori di medaglie olimpiche», e partecipando «alla produzione di manuali impiegati nei corsi sportivi e di libri rivolti ai bambini per avvicinarli a quest’arte marziale».
Più famoso in Giappone che in Italia, Capelletti esalta la cultura nipponica: «Per i giapponesi il judo è lo sport nazionale. Ogni volta che sono andato lì sono stato accolto splendidamente. Dopo l’attribuzione dell’onorificenza ho ricevuto lettere dal Ministro degli Esteri di Tokyo, dall’ambasciatore a Roma, dalla Federazione giapponese, dall’Istituto giapponese di cultura, e soprattutto dal Kodokan». Quest’ultimo ente rappresenta l’accademia dove Jigoro Kano fondò il judo. Facendo un paragone calcistico sarebbe come l’International Board, l’istituzione che scrive le regole della disciplina. «E pensare - chiosa Capelletti - che da atleta non ho vinto granché, da tecnico e da dirigente ho invece dato sempre il meglio per far crescere giovani atleti e dare visibilità al judo».
Eppure da piccolo l’oggi ottantenne decimo dan aveva idee completamente diverse. Il suo sogno era diventare un grande portiere e militare in Serie A. «Giocavo in porta nelle giovanili della Cremonese, dove ero un compagno di Aristide Guarneri, lo stopper della grande Inter di Herrera. Arrivai alla lotta giapponese per caso, ma mi appassionai e decisi di proseguire. Lavoravo in un ufficio tecnico e mi allenavo a Milano. Quando smisi di gareggiare, decisi di allenare alla Forza e Costanza di Brescia». Lì è cominciata la sua carriera in palestra, nella quale ha insegnato il judo anche a tre generazioni della stessa famiglia: nonno, figli e nipoti. «Il judo può consentire al bambino di recuperare gli schemi motori che oggi non sono più spontanei, in quanto buona parte dell’infanzia si passa in ambienti chiusi e ristretti. Quando un ragazzino sale per la prima volta sul tatami deve vederlo come un gioco. Il maestro non può spiegargli gli equilibri, ma deve farlo divertire».
Il segreto dell’allenatore Capelletti è semplice: «Il maestro bravo è chi cambia il metodo di insegnamento in funzione dell’allievo. Ai tornei l’allenatore è indispensabile quando l’atleta perde. È infatti dopo la sconfitta che prima deve farlo piangere, poi deve spiegargli perché ha perso, infine deve suggerirgli cosa cambiare».
Da Mosca 1980 (dove guidò al successo l’azzurro Ezio Gamba) fino a Rio 2016 Capelletti non ha mancato un’Olimpiade. «Non vedo l’ora di vivere la prossima a Tokyo 2020, per vedere cosa si inventeranno i giapponesi». In questi anni il judo è cambiato tantissimo, tanto che oggi la tecnica prevale sulla strategia. «Per vincere occorre avere il tiro da ippon che corrisponde al pugno da ko nella boxe. Uno stratega senza tecnica non può più trionfare, perché se non attacca viene sanzionato e se attacca senza disporre dei colpi giusti può subire il contrattacco».
Il judo italiano è tornato da Rio con due medaglie, ma nelle ultime stagioni non ha brillato: «La sfida per gli atleti azzurri non è tecnica, ma di mentalità. Tutti hanno come obiettivo essere i numeri uno in Italia, quando invece l’orizzonte di riferimento deve essere il mondo». Parola di chi quel globo lo ha girato in lungo e in largo. E che a 80 anni ha ancora voglia di sgobbare sul tatami. Lunga vita al maestro con la cintura rossa.