giovedì 28 novembre 2013
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​Il 28 novembre 1983 all’Opéra di Parigi si alzava il sipario sul Saint François d’Assise. Il capolavoro di Olivier Messiaen ripercorre in tre atti e quattro ore e mezza di musica il cammino di santità del Poverello, dal bacio al lebbroso fino alla morte e all’ingresso «nella nuova vita» del Cielo passando per la predica agli uccelli e le stigmate. Nel suo unico titolo operistico il compositore francese, ormai 75enne, riversa come in una summa tutta le sonorità e le tecniche che ne hanno fatto uno dei grandi maestri del Novecento, ma soprattutto i grandi temi della fede espressi attraverso il suono: «La musica ci porta a Dio per un difetto di verità – dice nell’opera Francesco citando Tommaso d’Aquino – fino al giorno in cui lui stesso ci abbaglierà per eccesso di verità». Quella di 30 anni fa (un evento nazionale in Francia, dove fu trasmessa in tv) è una data importante nella storia della musica, spiega il direttore d’orchestra Kent Nagano, che di quella prima fu uno dei protagonisti: «Conferma la grandezza di Messiaen come pioniere e visionario. Il maestro ricevette la commissione negli anni ’70, ma non riuscì a completarla prima del 1982. La ragione è che aveva problemi con la struttura dell’opera lirica in sé. Si chiedeva come si potesse andare avanti dopo Tristan e Wozzeck. Trovò la soluzione tornando alla forma usata da Berlioz per Lélio, Romeo et Juliette e La damnation de Faust». Lavori che sono opera, prosa e sinfonia: «Ma non sono oratori, perché c’è molto più dramma. Messiaen capì che avrebbe potuto spingere questa forma verso una dimensione ancora maggiore. E trovò una soluzione la cui importanza è tale che molti compositori hanno dichiarato di avervi trovato una strada su cui camminare. A mio avviso il Saint François non è solo un’opera ma un modello per l’opera del futuro».

Nessuno d’altronde conosce bene il Saint François d’Assise come Kent Nagano, e non solo perché quest’opera l’ha diretta più di tutti («Penso che la mia missione sia compiuta: ho portato il Saint François nel repertorio»), ma perché l’ha vista letteralmente nascere: «Messiaen me ne parlò per la prima volta a San Francisco nel 1981. Poi un anno dopo mi chiese concretamente di essere parte della produzione». Nagano, oggi una delle bacchette più apprezzate, all’epoca era solo un direttore trentenne di belle speranze. E nel ricordare quell’avventura non comune si emoziona al punto da mescolare all’inglese anche parole in francese: «Messiaen sapeva che Seiji Ozawa, il direttore principale, non sarebbe potuto essere presente a tutte le prove. Quindi serviva un secondo direttore e mi chiese di venire a Parigi e di andare a vivere a casa con lui e sua moglie Yvonne Loriod, così avremmo potuto lavorare a stretto contatto. Era la prima volta che trascorrevo un tempo così lungo fuori dagli Stati Uniti. E la prima volta – ride – che vivevo in un posto dove nessuno parlava inglese!».

A casa Messiaen la maggiore parte del tempo è dedicata al Saint François: «Ne discutevamo appena svegli, durante le prove della mattinata e quelle pomeridiane, alla sera e a volte anche di notte. Prima di cena facevamo un’analisi di come erano andata la giornata, per capire su cosa lavorare il giorno dopo». Nel discutere della partitura, Messiaen «su tutto aveva a cuore il suono. Ricordo la cura con cui mi spiegò quanto bello sarebbe dovuto essere quando l’Angelo suona la viola. E ancora quando durante le prove in cui la sezione dei clarinetti doveva suonare un passaggio virtuosistico. Messiaen non era soddisfatto. Provarono di nuovo, ma senza successo. "Maestro – dissero i musicisti – non riusciamo a suonarlo". E Messiaen rispose: "Mettete le dita qui e qui, e vedrete che riuscirà". I clarinettisti adottarono la diteggiatura e il passaggio funzionò. Tutti furono molto impressionati. Ma Messiaen disse: "La cosa più importante però è che voi lo suoniate bello e pieno di sentimento. Il pubblico non deve sentire la difficoltà ma la bellezza". Fu un momento emozionante, i clarinettisti capirono, e lo suonarono davvero bene».

La sera della prima Nagano ricorda il compositore molto agitato. «Ma l’opera fu un trionfo. Lui mi disse che era stata una premiere diversa dal solito, perché a volte a Parigi in occasione di altre sue prime il pubblico era stato davvero scontento. In occasione della prima di Chronochromie, mi disse, molte persone lo aspettarono all’uscita sul palco e lo ricoprirono di urla e di buu. Un uomo era talmente arrabbiato che si tolse una scarpa e la lanciò cercando di colpirlo alla testa. Quella sera, invece, era davvero commosso».

Trent’anni fa sul palco dell’Opéra c’era anche Giuseppe Crisolini Malatesta. Ma di quella serata ricorda poco, se non il trionfo. «Ricordo invece benissimo il lavoro, immane, precedente», dice. Perché Crisolini Malatesta di quell’allestimento è stato lo scenografo e il costumista, accanto al regista Sandro Sequi, scomparso nel 1998. Oggi ha 66 anni. Nel suo curriculum ci sono collaborazioni con i maggiori teatri lirici e di prosa e con registi come Ronconi e De Fusco. «Il Saint François è stata però l’esperienza più grande della mia vita». È la prima volta che la racconta. Anche lui all’epoca era poco più che trentenne. «Fui contattato da Sequi, con cui lavoravo molto. Lui era stato chiamato da Massimo Bogianckino, all’epoca direttore generale dell’Opéra. I due si erano conosciuti a Firenze, dove Bogianckino era stato sovrintendente». L’allestimento fu lungo e complesso: «Fummo chiamati quasi due anni prima. Messiaen voleva che lo spettacolo avesse un’impostazione giottesca. Con Sequi facemmo un lungo viaggio in Umbria sui luoghi francescani, per essere più fedeli possibili. Il lavoro con il maestro è stata la cosa più semplice. Era un uomo squisito, di grande semplicità e purezza. Passammo con lui molti pomeriggi. Mentre la moglie preparava il tè, in una piccola sala insonorizzata lui suonava il pianoforte. Ci raccontava le parti dell’opera, spiegando quello che voleva visivamente e drammaturgicamente».

Lo spettacolo è gigantesco. Le enormi masse orchestrali occupano oltre alla buca anche i palchi laterali e il coro di cento persone richiede difficili soluzioni tecniche: «Io ero angosciato per la paura di non fare bene: era chiara a tutti l’importanza storica dell’impresa a cui stavamo mettendo mano. La scena era composta da un’enorme scala su cui stava il coro mentre su dei cubi mobili venivano evocate le scene di Giotto. I costumi non erano impegnativi: si trattava in sostanza di vestire dei frati… Non era così invece per l’Angelo, a cui Messiaen teneva moltissimo. Sul suo costume ho lavorato per settimane: dal colore delle ali all’abito all’aureola. Era ricamato, con un tessuto rosa leggerissimo mentre le ali erano fatte di piume. Oggi ci rido su, ma quando scoprii che l’aveva realizzato una ditta parigina che lavorava per il Moulin Rouge ci rimasi anche un po’ male…».

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