sabato 14 novembre 2015
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Una fonte di notevole interesse, tra elementi di novità e fatti noti, ora a disposizione degli studiosi della grande assise, come pure del pensiero dei due papi del Concilio e di più di un padre conciliare. Una fonte non ufficiale scritta da un 'attore' particolare: il Diario del segretario generale del Concilio, Pericle Felici. Rimasto a lungo nel fondo di un inginocchiatoio, nel 1982, alla morte dell’autore, che gli aveva indicato il 'nascondiglio', monsignor Vincenzo Carbone (per trentacinque anni archivista del Concilio) lo recuperò e prima di morire - il 13 febbraio 2014 - ne trasmise trascrizione e parte dell’apparato critico, al Capitolo Vaticano di cui era membro. Da qui all’arcivescovo Marchetto, che con Carbone ne stava preparando l’edizione annotata ora in libreria ( Vincenzo Carbone, Il 'Diario' di monsignor Pericle Felici, a cura di Agostino Marchetto, Lev, pagine 588, euro 40). L’opera fonde in un unico testo, secondo una scansione cronologica, due diversi registri di annotazioni: i pensieri spirituali dei quattro quaderni Cogitationes cordis mei e le note fissate su otto agende che vanno dal 1959 al 1966. Il lettore vi può ripercorrere molte vicende conciliari 'dall’interno'.

Prendendo atto del ruolo di Felici in diversi 'passaggi', nella fase di preparazione (regolamento, nomine per i ruoli, tempistiche…), durante le sessioni (rapporto con i moderatori, i periti, i nuovi organismi…) e, al contempo, trovando conferme di un impegno faticoso (con conseguenze sulla salute, leggasi astenia nervosa), nonché di un rapporto di devozione nei confronti di Giovanni XXIII e di Paolo VI (con il corollario di un incessante attivismo per una collegialità non lesiva del primato petrino). Una lealtà apprezzata da papa Roncalli che il 6 settembre ’60 sul suo diario scriveva di Felici «Finora è il pilastro o la columna più solida del grande avvenimento che stiamo preparando», il 5 gennaio ’62 ne definiva la direzione conciliare «saggia, alacre, intelligente e discreta» e alla fine della vita, gli comunicò attraverso il segretario monsignor Loris Capovilla (così il diario di Felici il 25 maggio ’63) di apprezzare «tanto il suo lavoro», aggiungendo, forse con riferimento al sacrificio imminente della sua persona: «Anch’io lavoro per il Concilio, anche e soprattutto adesso'». Questo da raccordare con un brano del diario del cardinal Tucci dove alla data 9 febbraio ’63 si legge «[Giovanni XXIII] osserva che mons. Felici è un gran brav’uomo, ma che ha la mentalità ristretta; sa il latino e anche l’italiano e più o meno è tutto; è vero che non si è messo lui a quel posto poiché fu proposto da Tardini senza che egli sapesse nulla; è obbediente e buon lavoratore. Ma il Papa lo ha salvato (con aggiungergli i cinque sottosegretari) e mons. Felici lo sa e gliene è grato». Una lealtà apprezzata, sin dai primi incontri, anche da Montini che, eletto papa, l’accolse con la frase «Io ho piena fiducia in lei», affidandogli poi incombenze sempre più gravose. Ma non si vedono solo quadri idilliaci in queste pagine: e se si ripetono qua e là cenni a «pressioni e angustie giornaliere», è soprattutto quella Curia romana della quale Felici era tacciato d’essere il «manutengolo» (così in uno sfogo affidato al Diario) a uscirne male, per le piaghe che anche papa Francesco fatica a sanare: invidia, maldicenza, ambizioni sfrenate, carrierismo, commistioni politiche inopportune. «Quanto soffre il Santo Padre nel vedere la discordia, il dissapore anche tra i Cardinali (parla particolarmente dei Cardinali del Seminario Romano).[...] Quanto sarebbe meglio se il S. Uffizio e chi ne è a capo stesse a posto suo e non si immischiasse così apertamente di politica», scrive Felici il 28 maggio ’60, aggiungendo che a Giovanni XXIII «non piace la fraseologia destra e sinistra» e che così gli ha riassunto il suo pensiero: «Ma certo a noi, che siamo venuti da povera gente e ne sentiamo le necessità, certe asserzioni della cosiddetta sinistra fanno più piacere, e talora corrispondono di più al Vangelo». Nel Diario, il 26 novembre ’65 a proposito di politica, torna anche la questione della condanna del comunismo e del ricorso di monsignor Carli (« An sit expresse damnandus comunismus in schemate XIII »), quando è la soluzione del segretario generale a essere accettata da tutti («…si è d’accordo di non rinnovare espressamente la condanna del comunismo, ma nella Relazione dire che gli errori del comunismo sono già stati condannati nel testo, come del resto sono condannati dal Magistero della Chiesa e se si evita di entrare ora esplicitamente nella questione, è per evitare interpretazioni politiche…»). Molte le citazioni che si potrebbero fare continuando a spigolare il Diario nel dar conto di un Concilio che, scrive Felici il 19 ottobre ’64, «ha suscitato un gran fermento: la pastorale, l’ecumenismo, la libertà; ha aperto la bocca a tanti sconsiderati, che finora avevano provvidenzialmente taciuto!», e il cui prolungamento sine die, «questo fare, disfare, rifare, ridisfare gli schemi», si rivela per lui «urtante». In realtà se alla stessa data il segretario annota che «i moderatori praticamente influenzano il Papa: hanno capito che non è un carattere forte e deciso. [...]. Forse solo una guerra porrà fine al Concilio!», il 7 dicembre ’65 il suo pensiero diventa: «Forse nessun Concilio ha avuto una fine così bella e promettente».  Non è tutto. Nel Diario entrano anche incidentalmente nomi e giudizi che non lasciano indifferenti: da padre Pio (il 1° novembre ’60 Felici scrive: «il Papa vorrebbe da quel religioso più sottomissione e più umiltà...») a Manzù (alla data 28 giugno ’64, quando Paolo VI inaugura la Porta in San Pietro scrive: «Quanto ci sarebbe da dire di questo artista e delle sue idee e della sua vita! Eppure ha la gloria di aver modellato la porta 'della morte' in S. Pietro! Ha dedicato la porta a mons. Giuseppe De Luca. Ma come ha potuto farlo?»). Tutto questo non mette in secondo piano, afferma il curatore, la «bella storia di un’amicizia con Dio, in Cristo», narrata nel Diario specchio di un «grande animo sacerdotale». Un prelato dalla spiritualità tradizionale, da molti descritto come uomo dalla mentalità clericale e dal carattere autoritario, e più vicino alle prospettive della corrente conservatrice: così lo collocava (nel profilo Le patron du Concile) Jan Grooaters. Un sacerdote che di sé il 21 giugno ’64 offriva questo autoritratto: «Mi trovo a condividere nella dottrina e nella pratica alcune posizioni che si è convenuto chiamare tradizionali, pur guardando con serenità, così mi sembra, a delle aperture, che possono migliorare gli spiriti e renderli più adatti alla diffusione del vero e del bene».  E ancora: «Mi trovo al Concilio a dover fare l’imparziale fra diverse tendenze: e quello che fa la voce più grossa è quello a cui io ho guardato con una certa preoccupazione. Il guaio è che in pratica la preoccupazione è anche dei Superiori, nonostante che anche loro debbano guardare con una certa imparzialità 'a questo fiorire di cervelli' e talora ne sentano il fascino. Naturalmente chi deve eseguire (senza poter dire la fonte) è il Segretario Generale, il quale dovrebbe combinare cose in pratica assai scombinate. Nonostante ciò io ho piena fiducia nella grazia del Signore e nel tempo.

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