Se il cristianesimo si rifugia nella forma
Il presidente della Pontificia Accademia di Teologia riflette sull’ultimo libro di Pierangelo Sequeri, potente j’accuse

Leggere l’ultima fatica di Pierangelo Sequeri, Addio a Dio? Sul Dio vivente (Centro Ambrosiano, pagine 96, euro 10,00), è un’esperienza insieme destabilizzante e rigenerante. Con la precisione di un chirurgo e la passione di un mistico, Sequeri diagnostica la malattia mortale che affligge il cristianesimo: non l’ateismo teorico, ma un più insidioso e profondo “vuoto affettivo”. Il Dio che è morto nella postmodernità non è l’Ens necessarium dei filosofi, ma il Dio vivente, il Dio sentito, l’“affettivo”.
La sua analisi è un potente j’accuse contro un cristianesimo che si è rifugiato nelle “forme” – dogmi, dottrine, rituali – dimenticando le “forze” dell’esperienza e della teofania. È su questo crinale che la sua riflessione si fa più acuta e apre un dialogo fecondo con una prospettiva sapienziale che cerca il Sophion, il principio di Sapienza divina.
Sequeri chiama le cose con il loro nome. La “morte di Dio” è in realtà la morte di un certo tipo di Dio: il Dio-idea, il Dio-concetto della modernità. Questo Dio, ridotto a “prodotto della mente”, è inevitabilmente destinato a diventare insignificante in un’epoca che, almeno a parole, esalta l’esperienza. La diagnosi di Sequeri diventa spietata: la teologia ha fallito perché ha continuato a parlare di Dio dall’interno del proprio recinto, senza incarnarsi nel linguaggio della cultura. Il risultato è un cristianesimo “fuori asse”, come mostra la figura del monaco Otlone: un credente che mantiene tutte le forme della fede (preghiera, obbedienza, dottrina) ma sperimenta un deserto interiore, un’assenza di Dio. Dove la comunicazione affettiva si interrompe, la fede diventa un guscio vuoto, un “dogma” nel senso deteriore del termine, cioè un’imposizione esteriore priva di vita.
È nella rilettura del Concilio di Nicea che Sequeri compie il balzo più audace. Nel “generato, non creato” vede una rivoluzione copernicana: il Dio cristiano non è più il Motore Immobile, ma è, fin dall’eternità, Generazione. L’Uno solitario e autosufficiente della filosofia greca sparisce, perché Dio è relazione, donazione, paternità e filiazione. Propone così un Dio che è, in sé stesso, Comunione d’Amore. L’ontologia diventa un’ “ontologia affettiva”: il fondamento non è una sostanza, ma una relazione; non un’idea, ma un atto d’amore che genera. Il Lógos che illumina ogni uomo è il Figlio generato dal Padre: qui la luce della ragione e della fede trovano la loro comune sorgente in un Dio che è Relazione luminosa.
Perciò, Sequeri insiste sulla “teofania” come esperienza necessaria del “Dio vivente”. Non come apparizione straordinaria, ma come il “tocco” di Dio percepito nella “pura gioia per la felicità altrui”. È nell’amore per il prossimo che si fa esperienza sensibile della perfezione divina. Questa intuizione si allinea con una teologia sapienziale che cerca la Sapienza nelle opere e nelle relazioni. L’“illuminismo cristico” che cerco di delineare trova qui un alleato formidabile: la luce di Dio non acceca con bagliori soprannaturali, ma illumina dall’interno l’umano, rendendoci capaci di riconoscere il divino nel volto dell’altro, nella gioia condivisa, nella giustizia che aneliamo.
Tuttavia, sorge una domanda cruciale: questa teofania affettiva è sufficiente a colmare il vuoto? L’esperienza del bello, del buono e del vero può essere un segno, un riflesso della Sophia, ma non è ancora l’incontro con la Sorgente personale. La forza del Cristo, nell’“illuminismo cristico”, sta proprio nell’essere il Sophion fatto carne, il punto di incontro tangibile e storico tra l’immanenza della Sapienza e la trascendenza del Dio vivente. Sequeri accenna a questa “compatibilità cristologica”, sottolineando come la rivelazione storica dia senso e compimento a tutte le teofanie diffuse.
Le parti conclusive del libro, sulla “giustizia degli affetti” e sull’“intercessione”, sono forse le più profetiche. Sequeri connette la “generazione eterna” con una nuova idea di giustizia, non più come semplice applicazione di una legge, ma come il “dare a ciascuno il suo” in un senso profondamente ontologico. La generazione è il paradigma stesso della giustizia: parti di sé vengono destinate a diventare l’altro. In questo, egli scorge il modello per un umanesimo rigenerato.
L’intercessione di Mosè e, supremamente, quella di Cristo, che “si fa peccato” per noi, completano questo quadro. Questo Dio non è un tiranno distante, ma un Dio che si espone, che condivide il destino della creatura, che rifiuta la salvezza privilegiata e sceglie la solidarietà fino all’abisso della croce. È un’immagine potentissima, che smonta definitivamente la caricatura del Dio faraonico e apre a un’etica della responsabilità e della compassione.
Da una prospettiva di illuminismo cristico, questo è il cuore della questione. La luce del Lógos non è una luce fredda e distaccata, ma una luce calda, “compassionevole”, che si fa carico delle tenebre del mondo per trasformarle dall’interno. La Chiesa e ogni credente sono chiamati a diventare, a loro volta, “intercessori”, ponti viventi che rifiutano di salvarsi da soli. In questo, Sequeri indica la strada per una “rivoluzione della tenerezza” che è al tempo stesso teologica, ecclesiale e politica.
Addio a Dio? non è un libro facile, ma è un libro necessario. È una mappa preziosa per orientarsi nel deserto spirituale del nostro tempo e una miniera di intuizioni per chi voglia ripensare la fede al di là degli steccati sterili tra teismo e ateismo.
La sua grandezza sta nell’aver individuato nel “vuoto affettivo” il vero nemico e nell’aver cercato la soluzione non in un ritorno al passato, ma in un rinnovato accesso alla sorgente più autentica della Tradizione: il Dio-Trinità, Amore generativo. Se, da una prospettiva sapienziale e cristica, si potrebbe desiderare un ancoraggio più esplicito al Cristo storico come chiave di volta che unisce definitivamente l’immanenza dell’affetto alla trascendenza del Dio vivente, questo non sminuisce il valore profetico dell’opera. Sequeri non chiude il discorso, lo riapre. E ci consegna, come un testamento da far fruttare, l’immagine di un Dio che non dice “addio” all’uomo, ma che, nell’eterna generazione del Figlio e nell’intercessione dello Spirito, continua a cercarlo, a toccarlo, a commuoversi per lui. In un’epoca di “Dio liquido” o assente, questa è una testimonianza di rara forza e di speranza concreta. Il compito ora, per la teologia, la Chiesa e ogni credente, è quello di rendere nuovamente “eccitante” e “affettivamente significativa” questa rivelazione. Il deserto, ci ricorda Sequeri, può ancora fiorire.
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