domenica 1 marzo 2009
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«Le leggi sulle conversioni adottate in diversi Stati indiani dovrebbero essere riconsiderate perché suscitano serie preoccupazioni in materia di diritti umani. C’è il timore che questo tipo di legislazione possa essere percepita come un avvallo morale per coloro che vogliono incitare alla violenza». Ancora: «Il diritto di scegliere liberamente la propria religione, di mantenerla o di cambiarla, è un elemento fondamentale del diritto alla libertà religiosa e non può essere limitato in alcun modo dallo Stato». Infine: «Le attività pacifiche dei missionari e le altre forme di predicazione della religione sono parte del diritto di manifestare la propria religione». Sta tutto scritto, nero su bianco, nel dossier che Asma Jahangir, avvocata pachistana, ha presentato, pochi giorni fa al Palazzo di vetro, nella sua veste di rappresentante Onu sul diritto alla libertà religiosa. In India l’escalation del fondamentalismo di marca indù, che ha nel partito Bjp il suo braccio politico, mette a repentaglio la serena convivenza tra le varie componenti della popolazione, in larga parte induista, ma con una significativa presenza musulmana (centoventi milioni di abitanti) e un’antica e radicata comunità cristiana. I massacri susseguitisi nell’autunno scorso in Orissa non sono che la punta dell’iceberg di una situazione che conosce tensioni anche in altri Stati dell’immenso Paese. L’ostilità anti-cristiana, peraltro, è determinata da motivazioni extra-religiose, che hanno più a che vedere con la paura di una destabilizzazione del sistema castale e della supremazia indù, insidiata dal processo di riscatto sociale che la fede cristiana propugna per i dalit e i fuori-casta. L’India non è certo l’unico Paese attraversato da tensioni religiose. Dal 1986 le Nazioni Unite hanno affidato a uno "special rapporteur" l’incarico di monitorare la situazione del "diritto di credere" nel mondo. Ebbene, nell’arco di questi ventidue anni l’incaricato Onu ha effettuato ben 1.130 interventi, per un totale di centotrenta Paesi coinvolti. Segno che la persecuzione – o, almeno, le discriminazioni – contro credenti di varie tradizioni sono un fenomeno diffuso a macchia di leopardo nei diversi continenti. Qualche caso? In Pakistan, dov’è obbligatoria l’indicazione della religione sulla carta d’identità, le banche non concedono prestiti ai cristiani. In Sudan le autorità governative hanno distrutto cimiteri cristiani; in Turchia la legge attuale prevede che una chiesa non possa affacciarsi direttamente su una strada pubblica. In Venezuela si stanno moltiplicando gli episodi di antisemitismo. Poi abbiamo casi più gravi: i severi controlli sulla professione pubblica della fede che in Cina prevedono, a volte, l’arresto arbitrario di pastori protestanti, di preti e vescovi cattolici. La "lista nera" stilata dalla commissione indipendente del Congresso Usa sulla libertà religiosa comprende undici Paesi di "particolare preoccupazione": Paesi retti da dittature come Birmania, Corea del Nord e la meno nota Eritrea (dove centinaia sono i cristiani arrestati, numerosi i missionari espulsi negli ultimi anni); regimi islamici (Iran, Pakistan, Arabia Saudita, Sudan), ex repubbliche sovietiche (Turkmenistan e Uzbekistan) e Paesi comunisti (come Repubblica popolare cinese e Vietnam). Altri otto Stati figurano in una speciale lista di osservati speciali, che riguarda situazioni meno gravi ma comunque problematiche; si tratta di Afghanistan, Bangladesh, Bielorussia, Cuba, Egitto, Indonesia, Nigeria e Iraq. Anche in questo caso si tratta di Paesi a maggioranza musulmana o (nel caso di Cuba) di regimi comunisti. Quanto all’Iraq, è noto che i cristiani rappresentano il vaso di coccio del Paese. Oggi ne sono rimasti mezzo milione contro il milione e mezzo del 2000. Vero è che la Costituzione irachena stabilisce per tutte le religioni una parità di diritti ben superiore alle legislazioni degli altri Paesi arabi e musulmani, tuttavia nella pratica i cristiani non sono tutelati come dovrebbero. Negli ultimi tempi la situazione si va stabilizzando ma sono migliaia le famiglie che, nei mesi scorsi, hanno dovuto scegliere la via della fuga.Se rimaniamo nell’ambito dei Paesi islamici, vanno segnalati – tra quelli che rendono la vita più dura ai credenti – Afghanistan, Arabia Saudita e Somalia che prevedono la pena di morte per apostasia. Anche in Algeria il clima è tornato ad essere pesante: una legge recente criminalizza chi tenta conversioni dall’islam. In Pakistan, mentre si discute sulla possibilità di introdurre la legge islamica tout court, in questi anni una legge sulla blasfemia varata strumentalmente si è tradotto in ripetuti abusi contro cristiani. Vittime della repressione in Pakistan sono anche alcune famiglie appartenenti all’ahmadiyya costrette a lasciare le loro case. L’ahmadiyya è un movimento islamico, nato in alveo sunnita, giudicato eretico dal resto della galassia musulmana. Accade in Bangladesh, ma anche in Guinea Bissau, dove il Consiglio nazionale islamico locale ha chiesto al governo l’espulsione dei suoi membri dal Paese. Un’altra minoranza religiosa oggetto di persecuzione è quella dei baha’i, diramazione eterodossa dell’islam sciita di origine persiana, sorta nel XIX secolo. In Iran i baha’i sono oggetto di stretti controlli; così come accade per gli zoroastriani. Anche per i cristiani (armeni e caldei) la vita è tutt’altro che facile. Se in Indonesia, il Paese musulmano più popoloso al mondo, da qualche tempo il numero di episodi di intolleranza religiosa si va riducendo, la Malesia – che pure non è nel novero dei Paesi islamici più oltranzisti – tuttavia registra uno stillicidio di episodi che fanno percepire la situazione delicata delle minoranze non islamiche. Anche in Guinea Equatoriale sembra prendere piede una versione più aggressiva dell’islam, come prova la diffusa emarginazione dei non-musulmani dalle cariche pubbliche. In alcuni casi, è la minoranza indù a essere sotto pressione. In Bangladesh non mancano casi di conversioni forzate all’islam. In Nepal si registra un fenomeno allarmante: un numero crescente di lavoratori immigrati nei Paesi a maggioranza musulmana (si parla di seimila casi nella penisola araba), abbandonano le religione indù per abbracciare quella musulmana. I "convertiti", in questi casi, altro non cercano se non di migliori opportunità economiche e sociali. Chiudiamo questa carrellata con il Laos. A differenza del confinante Vietnam, dove il pendolo della libertà religiosa ancora oscilla tra timide aperture e severi controlli, si registrano piccoli segnali positivi, come l’aumento del numero dei sacerdoti e la vitalità dei gruppi giovanili, sebbene la libera espressione della fede subisca ancora forti restrizioni.
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