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Jesse Collins / Unsplash
Con due settimane di ritardo, dunque senza la rapidità auspicata da Antonio Spadaro, torno al suo articolo del 19 gennaio su questo giornale in cui proponeva una “teologia rapida”. Sembra un ossimoro, ma è un’intuizione psichica. In un’epoca funestata dalla velocità, che sembra aver perso il tempo della riflessione, un appello alla rapidità suona strano. Ma quale rapidità? E perché rapidità e non velocità? Perché la velocità è quella dei treni che, salvo imprevisti, filano indisturbati sul loro binario. La rapidità, invece, lo conferma l’etimo latino, rapisce. Come i cambiamenti globali: afferrano, portano via. Stravolgono come rapimenti, la mitologia insegna che possono essere sequestro o estasi. Se la velocità ha una sua unità di misura, la qualità del tempo rapido è soggettiva, interiore. Anche se la sua fibra è veloce, l’avvento di internet, per esempio, è stato rapido.
Perché a Spadaro interessa la rapidità, addirittura una teologia della rapidità? Perché serve per attraversare le rapide del presente, le sue acque turbolente. Spadaro va controcorrente. Di solito i saggi invitano a rallentare il passo. Anche noi psicoanalisti, alla tachicardia dell’ansia preferiamo la calma del respiro, al raptus dell’azione impulsiva la pausa della riflessione. Dunque Spadaro ci invita all’affanno e all’acting? Non credo. Piuttosto leggo il suo appello come un invito a sintonizzarci con i tempi rapidi – ecoansia, algoritmia, disforia – del mondo in cui viviamo. Qualcosa di simile, mutatis mutandis, all’esortazione che lo psicologo James Hillman rivolse nel 1985 agli psicoanalisti abituati alla bolla claustrofilica delle loro stanze atemporali: aprite le finestre e guardate fuori, fate entrare il mondo, i suoi rumori, gli odori e anche gli orrori. E poi la rapidità, e questo di sicuro non sfugge a Spadaro, è propria della poesia che, dice René Char, «di tutte le acque limpide, è quella che si sofferma meno sui riflessi dei suoi ponti». Però lancia la freccia immaginale che precipita la parola nel futuro.
Citiamo spesso le parole del poeta Yeats: «Le cose vanno in pezzi, il centro non reggerà». Oggi più che mai ce lo chiediamo, se il centro reggerà. Il centro della psiche, delle relazioni, della politica, del clima. Le onde rapide che Spadaro chiede alla teologia di affrontare sono dentro e fuori di noi, bagnano le turbolenze dei cambiamenti culturali così come le vertigini delle nostre paure. Proprio da qui partirei, poiché non c’è sistema di convivenze (da quelle affettive a quelle sociali) che non richieda un lavoro di negoziazione tra le forze opposte che contemporaneamente ci abitano: egoismo-altruismo, parola-silenzio, sicurezza-avventura, solitudine-compagnia, rassegnazione-speranza. Tra queste, anche l’oscillazione velocità-lentezza. Secondo Jung un buon funzionamento psichico richiede la coniunctio oppositorum. Nella riflessione di Spadaro c’è un passaggio che definirei junghiano. È quando dice: «corriamo il pericolo di credere ancora in Mercurio (e la sua destrezza) ben separato da Saturno (e la sua contemplazione solitaria)». Un problema del nostro tempo è proprio la disiunctio, cioè la scissione psichica, mentre quello di cui avremmo bisogno è la capacità di “tenere insieme” (gran virtù psicoanalitica) la rapidità mercuriale e la profondità saturnina, accogliendo di quest’ultima anche la depressività. Solo da questa coniunctio può nascere una rapidità non impulsiva, ma benefica e trasformativa. Che si traduce pragmaticamente nella confidenza e nel coraggio di immergersi nella complessità ma anche nella confusione, «compiendo la traversata», dice Spadaro «insieme all’umanità di questo nostro tempo».
C’è una consapevolezza critica in questo invito di Spadaro. Se «la Chiesa ha perso la regìa della produzione culturale», il compito di chi la abita e la ama oggi è spingerla a «pensare le onde» e non solo «le rive di approdo», a entrare nelle rapide pensando rapidamente. Ciò che trasforma la proposta di Spadaro da auspicio a progetto, catturandomi, è l’esplicitazione del «modo di evangelizzare». Un modo aperto all’incertezza dell’incontro e proprio per questo alla sua sorpresa, più interessato alla convivenza che all’egemonia culturale: entrare «in culture complesse, ibride, dinamiche e mutevoli come quelle attuali, implica la maturità di comprendere che siamo attori, e magari a volte protagonisti, ma sempre insieme e accanto agli altri». La teologia rapida di Spadaro è quella che vede e riconosce tutti i soggetti di quel presente che il filosofo febbricitante Paul B. Preciado chiama Dysphoria mundi. Qui il tema della coniunctio ritorna come possibilità di elaborare una navigazione che evita il naufragio sugli scogli del «soggettivismo religioso fondamentalista» (comprese, aggiungerei, le forme viscerali dell’oscurantismo antiscientifico) e le secche del «sincretismo superficiale» (che spesso è solo intellettualismo di facciata). Alla sua Chiesa e a tutti noi Spadaro chiede di leggere empaticamente, quasi di valorizzare, l’inquietudine del nostro tempo, perché tutti i sistemi che cercano un quieto pensare per un quieto vivere sono destinati al fallimento. Aggiunge, con le parole di papa Francesco, un invito che mi tocca profondamente, come profondamente tocca i nostri inconsci: non perdere la capacità «di sognare nuove versioni del mondo».
Mi preoccupa invece l’effetto sulla psiche degli incubi reali che ci circondano. Mi preoccupa la trasformazione psichica, che diventa politica, che le emergenze possono portare in termini di ostilità, disumanizzazione, radicalizzazione, inibizione della prosocialità e della capacità di immaginare convivenze nuove. Freud lo spiega in Psicologia delle masse e analisi dell’io: la paura può passivizzarci fino all’idealizzazione di una guida aggressiva che si propone come problem solver salvifica e intransigente. Hai paura dei migranti, delle persone transgender, della complessità umana e intellettuale richiesta per costruire la convivenza? Ci penso io. La prima promessa di Trump è stata quella di risolvere alla radice le paure del tempo. Dunque pena di morte, deportazioni, intransigente binarismo di genere, antiecologismo, americacentrismo persino geografico. L’esibizione della foto con i migranti incatenati e l’onnipotenza tecnologica di Musk sono due esempi di rapidità prepotente. A cui è necessario rispondere con altrettanta rapidità, ma di segno opposto. Come esempio mi viene in mente il sermone della vescova anglicana Mariann Edgar Budde nel giorno inaugurale della presidenza Trump. Parole di rapidità empatica e diretta: «Le chiedo di avere pietà per molte persone del nostro Paese che ora sono spaventate», ha detto. Poi ha nominato le persone gay, lesbiche e transgender; le persone che, senza cittadinanza, ma certo non criminali, si occupano dei nostri raccolti, puliscono i nostri uffici, lavano i piatti nei ristoranti, fanno i turni di notte negli ospedali; le persone che fuggono dalle zone di guerra e vengono a cercare accoglienza da noi. Il “New York Times” ha descritto Budde come «un’icona di resistenza», il presidente Trump l’ha mal sopportata. Penso sia un esempio di teologia rapida, di certo ha fatto il giro del mondo in pochi minuti: consolando, sostenendo, spingendoci a sentire e pensare.
Concludo con un paragone azzardato, perché la psicoanalisi non è una teologia. La traversata evangelica di Spadaro mi ha ricordato la psicoanalisi della “traversata” (termine caro a Pontalis, lo psicoanalista che dice che ci vogliono parecchi luoghi dentro di noi per avere qualche speranza di essere noi stessi), che è diversa da quella della “seduta”. Non la fissità, ma il movimento psichico degli esploratori, degli astronauti, dei marinai. Del resto la parola greca psyché è soffio, spirito e respiro. E nell’Antico Testamento è il termine onomatopeico rúach a indicare il soffio vitale come fiato, vento e ispirazione divina. Così si torna alla realtà del Vangelo, che non è «bottega di restauro» né «laboratorio di utopie». Rapidamente, teologia rapida è domandarsi: oggi, a chi sarebbe vicino Gesù?