sabato 28 ottobre 2017
Le immagini del fotografo britannico in mostra nella nuova sede milanese dell'associazione e al palazzo della Triennale: «Ho sempre cercato un sorriso. Quello che ho visto a Mosul mi ha spiazzato»
Pazienti in attesa di essere visitati al Centro Sanitario di Emergency nel campo di Ashti, nella zona di Arbat (© Giles Duley)

Pazienti in attesa di essere visitati al Centro Sanitario di Emergency nel campo di Ashti, nella zona di Arbat (© Giles Duley)

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La guerra vista da vicino, con gli occhi di chi la vive, attraverso quelli di chi la documenta. Il racconto del fotografo britannico Giles Duley sull‘Iraq è “una ferita aperta”. Lo scorso febbraio ha visitato i progetti di Emergency con l’obiettivo di mostrare al mondo cosa è successo a Mosul. «In passato ho parlato di come, anche in queste situazioni, io abbia sempre cercato di trovare un barlume di speranza da fotografare, come una risata o l’amore di una famiglia. Ma quello che ho visto a Mosul mi ha spiazzato. Ho capito che a volte un’immagine simile è impossibile da trovare. Quando ti ritrovi faccia a faccia con una violenza così estrema, che valore può avere una fotografia? Contro un orrore così grande la macchina fotografica sembra essere impotente, il suo utilizzo quasi perverso», racconta il fotografo 46enne che nel 2011, in Afghanistan, mentre seguiva una pattuglia di soldati statunitensi è saltato su una mina. Duley ha rischiato di morire e ha subìto l’amputazione parziale di tre arti. La sua è una storia di rinascita, dopo le ferite della guerra: dopo una serie di operazioni ha ricominciato a lavorare e a raccontare le storie delle vittime dei conflitti. È tornato in Afghanistan. Poi su altri fronti, come l’Iraq. L’operazione umanitaria di Mosul è stata una delle più grandi e complesse emergenze del 2017, una battaglia nella battaglia. Qui ha incontrato Emergency, che per dare assistenza ai civili feriti in fuga dalla città all’inizio dell’anno ha deciso di riaprire un ospedale che aveva costruito nel 1998 e aveva poi affidato alle autorità locali nel 2005. In 7 mesi di attività, ha assistito oltre 1.400 vittime della guerra. In Iraq, Emergency continua ad offrire assistenza sanitaria ai profughi iracheni e siriani nei campi delle aree di Arbat e Kalar, e gestisce un Centro di riabilitazione e reintegrazione sociale a Sulaimaniya, avviato nel 1998. Duley racconta il volto duro, doloroso e umanamente assurdo della guerra; mostra le ferite, i sogni spezzati, ma non chiude la porta alla speranza. Anzi. Come testimonia l’impegno e la presenza di Emergency e di tante altre associazioni non profit e umanitarie presenti nei luoghi caldi del mondo, in quelle aree in cui si combatte la “terza guerra mondiale a pezzi”.

La mostra “Iraq: una ferita aperta” di Duley inaugura la nuova sede di Emergency a Milano, Casa Emergency, in via Santa Croce 19 (si può visitare in due fasi, fino al 6 novembre e dal 14 al 23 novembre, dalle 10 alle 19). Una parte di questo lavoro approda anche al Palazzo della Triennale di Milano fino al 12 novembre (dalle 10 alle 20.30). «Far conoscere gli effetti delle guerre a tutti è uno dei nostri principali obiettivi. Da oltre 23 anni Emergency offre cure gratuite e assistenza a tutte le vittime di guerra, ma porre rimedio alle conseguenze devastanti dei conflitti non è abbastanza», dichiara il presidente Rossella Miccio.

Ecco allora il racconto di Duley, che dà valore alla fotografia come impegno civile. «Credo che la fotografia richieda una grande responsabilità. Nel momento in cui prendo tra le mani la macchina fotografica per raccontare la storia di una persona, mi chiedo “Perché lo sto facendo?” - dice -. Soprattutto quando il mio lavoro si pone l’obiettivo di documentare la sofferenza di qualcun altro, e non c’è nulla di più crudele che puntare l’obiettivo su una persona ferita, impaurita o in serio pericolo. E quindi perché farlo? Fa davvero la differenza?». La risposta la dà proprio a Mosul la madre di Dawood Salim, un bambino di 12 anni che ha perso entrambe le gambe e gran parte della mano destra. «Per una settimana sono andato a trovare lui e sua madre, il ragazzo era sempre sorridente e con la battuta pronta – racconta il fotografo –. Per la prima volta mi sono sentito pronto a fotografarlo. Ho chiesto a sua madre: “Le dispiace se fotografo suo figlio?”. Lei mi ha guardato, con sguardo coraggioso ma al tempo stesso rassegnato. “Quando un bambino è ferito in questo modo, il mondo intero deve vederlo”».

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