giovedì 24 gennaio 2019
La riflessione del testimone di Auschwitz e premio Nobel per la Pace (1928-2016), che si chiede: «Come parlare delle vittime, per portare su di noi la loro verità mutilata, la loro memoria muta?
Elie Wiesel (1928-2016)

Elie Wiesel (1928-2016)

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Questa testimonianza di Elie Wiesel è uno stralcio da Il mondo sapeva. La Shoah e il nuovo Millennio, edito da Giuntina. Il volume contiene un appassionato intervento tenuto dallo scrittore e premio Nobel per la pace del 1986 all'Università di Friburgo nel 1999.

Mi è stato chiesto di evocare l’Olocausto e le sue implicazioni per il XXI secolo. Per me ciò rappresenta un compito urgente, e tuttavia impossibile. Nonostante tutto ciò che è stato scritto, e nonostante ciò che io stesso ho potuto dire nelle mie testimonianze, si tratta di un evento che concerne l’indicibile. Simile al Shem Hameforash il «Nome ineffabile», lo avvolgiamo di silenzio per meglio compenetrarcene.

Certo, grazie alle importanti pubblicazioni di certi grandi storici, teologi, pensatori e letterati, conosciamo i fatti salienti: le date, le cifre, le statistiche. Ma Auschwitz si situa al di sopra dei fatti; Treblinka sfida tanto la conoscenza quanto il linguaggio. Indubbiamente sappiamo ciò che gli assassini hanno fatto alle loro vittime, ma non sapremo mai ciò che le vittime provarono nelle tenebre che precedettero la loro morte. Tra le verità nate da questo evento ci sono quelle che i morti hanno portato in cielo, divenuto il loro cimitero. E i morti tacciono. E nessuno ha il diritto di parlare in loro nome. Dico bene: nessuno. Che sia per ragioni politiche, o economiche, o ebraiche, o altro ancora. I morti tacciono: rispettiamo il loro silenzio.

Come il profeta Geremia, alcuni di noi non cessano di ripetere: «Anì ha-ghever» (“Io sono l’uomo che ha visto l’afflizione”, Lam 3,1). Noi eravamo là, al cuore delle fiamme notturne, eppure non riusciamo a comprendere ciò che ci era successo. Com’è potuto accadere che un popolo civilizzato, colto e fiero dei suoi pensatori, dei suoi poeti, dei suoi artisti, dei suoi musicisti, abbia potuto produrre un sistema integralmente dedito al culto del potere e della morte? Come un Hitler ha potuto essere possibile? Come Auschwitz ha potuto fare irruzione nella Storia fino a diventare un mostruoso buco nero, una creazione parallela a quella del mondo esterno, un luogo dove gli assassini sono venuti per uccidere e le vittime per morire?

Leggo tutto ciò che viene pubblicato sull’Olocausto, e più leggo, meno capisco. Non capisco gli assassini, e non capisco nemmeno le loro vittime. Le due categorie manifestavano una demenza quasi assoluta. Cosa significa la logica oscura, dura e implacabile dei vecchi malinconici che mormoravano preghiere ardenti che Dio non ascoltava? E quei bambini terrorizzati che non piangevano nemmeno più? E quelle donne giovani e belle che scuotevano la testa come per dire no alla vita? Folli e prìncipi dall’aria smarrita che formavano cortei ammutoliti diretti, sotto un cielo di piombo, verso un altare in fiamme – chi oserebbe dire «io capisco»?

Certi documenti, redatti dagli assassini stessi, insistono sulla loro stessa incapacità di capire. Perché quegli ebrei non si dispersero? Perché non si diedero alla fuga, anche a costo di farsi massacrare nelle strade e tra i campi? Perché andavano a morire con tanta rassegnazione? A Babi Yar, dove sono stato, ho visto… Babi Yar – un tempo ne ero convinto – doveva trovarsi lontano, molto lontano da Kiev. Ma non è così. Babi Yar era a Kiev. C’era una strada che conduceva verso quella gola, e trentatremila uomini, donne, bambini, nel settembre del ’41, poco tempo dopo l’arrivo dei tedeschi, trentatremila persone che formavano una sorta di processione infinita percorrevano quella strada. Ora, c’era gente che abitava in delle case, in quella strada. E quando sono stato a Kiev, ho posto la domanda al presidente dell’Ucraina: «Mi dica se una sola porta si è aperta per far entrare un bambino, dicendogli: “Sbrigati!”».

Allora si sentivano le mitragliatrici crepitare, si sentivano, a volte, le grida, e anche il silenzio. Eppure, salvo qualche rara eccezione, i condannati ci andavano. Ci andavano. Ci andavano. E io ho letto un documento in cui uno degli assassini affermava di diventare pazzo. Lui diventava pazzo. È possibile che gli ebrei di Babi Yar e di Ponar e di Treblinka e di Minsk e di Pinsk e di ogni dove abbiano semplicemente voluto esprimere il loro sdegno, il loro disprezzo verso la società, come se avessero voluto dichiarare: «Ascoltate, brava gente, se questo è il vostro mondo, tenetevelo, noi non lo vogliamo»? All’epoca non sapevamo. Non sapevamo che il mondo libero sapeva. Altrimenti, credetemi, non avremmo potuto resistere.

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