martedì 15 settembre 2009
Onnipotente ma non misericordioso, trascendente eppure accessibile solo ai "suoi" uomini di fiducia, più "padrino" che "padre": così appare il volto divino ai boss della malavita organizzata che si definiscono credenti pur continuando a spargere sangue. Il j’accuse del sociologo Augusto Cavadi.
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Un Dio onnipotente ma non misericordioso, trascendente ma lontano dall’uomo, inaccessibile se non grazie all’intercessione di dubbie figure di mediatori qualificati: più un padrino che un Padre. Ecco il volto di Dio disegnato dai boss, capaci di sostituirsi a lui senza mai negarlo formalmente, e di proclamarsi cattolici continuando a spargere spietatamente sangue. Una contraddizione che viene analizzata nel libro Il dio dei mafiosi (San Paolo, pp. 256, euro 18), scritto dal giornalista, sociologo e teologo palermitano, Augusto Cavadi. Un volume che affronta gli aspetti culturali di un fenomeno complesso come la mafia, capace di strumentalizzare i principi fondamentali della teologia cattolica, e suggerisce anche alcune strategie di prevenzione e di contrasto. Boss che si fanno il segno della croce prima di uccidere, altri trovati con la Bibbia sul comodino. Cosa cercano i mafiosi nella religione cristiana?«Il cristianesimo è stato declinato, nella storia, in maniere differenti. I mafiosi di Cosa nostra, ’ndrangheta, camorra, Sacra corona unita e Stidda conoscono solo la versione che io chiamo "mediterranea". A questo universo simbolico attingono per autolegittimarsi: vi cercano un’anima, un’identità culturale, che li giustifichi agli occhi della propria coscienza e dell’opinione pubblica. Non è un caso che tra i riti di iniziazione per un "uomo d’onore" vi sia la cosiddetta punciuta, che comporta di bruciare un’immagine sacra su cui è stata versata qualche goccia di sangue del dito del candidato all’ingresso in Cosa Nostra». La mafia cerca di attingere dalla tradizione cattolica credenze e valori per identificarsi: ma li trova?«Questo è il punto più delicato. Se i mafiosi cercassero di strumentalizzare il Vangelo, troverebbero poco o nulla per i loro fini. Nella versione "mediterranea" trovano invece spunti per confermarsi nella loro ideologia: una visione gerarchica dei rapporti sociali, una morale conformista, un’antropologia maschilista».Ma lei sta delineando addirittura una «teologia mafiosa»?«È esattamente questo il cuore del libro. I rapporti fra cosche mafiose ed esponenti del mondo cattolico sono stati già abbastanza indagati sul piano storico. Mancava, invece, un tentativo di enucleare la teologia mafiosa». Un concetto che dà i brividi. Come sono i risultati del suo tentativo?«Un po’ inquietanti. Ho trovato imbarazzanti analogie: a volte accade che anche tra i credenti ci sia chi non prende abbastanza le distanze dalla cultura mafiosa. Non appare sempre irriducibile, inassimilabile, rispetto alle strumentalizzazioni operate dalla cultura mafiosa».Ma è sicuro che anche le nuove generazioni mafiose cerchino di strumentalizzare l’universo simbolico della fede? Ci sono segnali di segno del tutto diverso.«In effetti si registrano sempre più frequentemente casi di boss, come Sandro Lo Piccolo e Matteo Messina Denaro, che mostrano i condizionamenti della secolarizzazione nella loro mentalità e nel loro linguaggio. Ma non sono sicuro che questo porterà tanto presto a un divorzio fra codice culturale mafioso e quella che essi ritengono essere espressione della cultura cristiana».Eppure è un fatto che l’«anatema» di Giovanni Paolo II e l’uccisione di don Puglisi hanno segnato un salto d’intensità nell’impegno della Chiesa siciliana. Era il 1993...«Da allora, a mio giudizio,è cambiato molto, ma non ancora abbastanza. È cambiato molto perché anche alcuni credenti addormentati sono stati costretti a svegliarsi da quella che a volte era una illusoria equidistanza fra Stato e mafie. Ma la mafia da cui si prendono le distanze è la mafia che spara, che uccide cristiani integerrimi come Borsellino o Livatino. Temo che con la mafia dei colletti bianchi ci sia, da parte di qualcuno, ancora troppa indulgenza». Nel suo libro sostiene che la Chiesa deve fare di più per scardinare la transcultura mafiosa. Eppure la Chiesa siciliana è in primissima linea...«È necessario di seguire modelli come quello di don Pino Puglisi. È morto perché non si limitava alle fiaccolate contro le stragi di mafia, ma prendeva posizione pubblica verso politici filo-mafiosi».
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