venerdì 4 aprile 2014
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Un uomo è libero nel momento in cui desidera esserlo...». È un aforisma del filosofo Voltaire, ma anche legge di vita per l’ultramaratoneta Marco Olmo e, forse, per tutti coloro che amano affrontare il deserto. Per sfida, per cercare se stessi, per assaggiare la libertà oppure per scommessa. Tanti possono essere i motivi per presentarsi domenica al via della Marathon Des Sables e affrontare, correndo, quei maledetti e intriganti 250 chilometri in regime di autonomia alimentare. Tutti di corsa. Tutti a piedi. Un passo dopo l’altro, sei tappe e sette giorni su e giù per le dune che, sotto il sole con quasi 50°, diventano colline quasi insormontabili. È dura correre nel deserto del Sahara, laggiù nel sud del Marocco, in una gara estrema nata trent’anni fa e oggi diventata mitica, la meta più ambita per migliaia di avventurieri che nella vita non sono campioni della corsa ma, piuttosto, semplici ragionieri, operai, ingegneri, cuochi e altro ancora. O, magari, sono pensionati. Come Marco Olmo, piemontese, classe 1948, l’uomo italiano dei deserti. «Domenica sarà la mia diciannovesima Marathon Des Sables – afferma Olmo appena ritornato da una ultramaratona da 100 km nei Caraibi – e francamente non vedo l’ora. Non l’ho mai vinta, però sono arrivato tre volte terzo e ho fatto un sacco di buoni piazzamenti. Ma non vado per questo, vado nel Sahara perché è solo lì che mi sento libero...». Non si può definire Marco Olmo, c’è chi ha provato a chiamarlo “orso di montagna”. È vero, è un solitario, un avventuriero, ma nella sua corsa c’è classe, leggerezza, semplicità. E mai stanchezza. Per questo ha vinto diverse edizioni dell’Ultra Trail del Monte Bianco, estenuante corsa sulle alpi da 160 km. Vinceva a 40 anni e vince ora che ne ha 65 suonati, in barba ai tanti giovanotti vitaminizzati di oggi. Marco Olmo quando non è in qualche sentiero di montagna o deserto, esce di casa e corre, tutti i giorni per almeno due ore. Niente asfalto o marciapiedi, detestati come fossero veleno. Lui vuole la sabbia e il sole che spacca la testa, e ottimizzare il cibo che si porta nello zaino: «Nel deserto sei come una lumaca, ti porti dietro la casa in otto chili per centinaia di chilometri: ti rendi conto che non ti serve nient’altro. Sulle tue spalle c’è la tua sopravvivenza». Deve essere così nel deserto. Già un attimo dopo il colpo di pistola di ogni tappa ti accorgi che non sei nulla, sei solo con te stesso e non puoi contare su nessuno.Condividi il niente, arrivi al limite del tuo fisico e delle tue forze, pensi alla sete e all’acqua fonte primaria di vita. Tutt’intorno un mare di sabbia che ti si infila ovunque, scarpe e calze comprese, procurandoti vesciche devastanti. Che per un maratoneta è come avere l’auto da corsa con le gomme bucate: «Mi reputo un montanaro del deserto, solo lì mi sento bene. Non potrei mai correre nella folla da 40mila persone della Maratona di New York, mi sentirei asfissiare. Nello zaino ho la dotazione obbligatoria: bussola, sacco a pelo, luce frontale, specchietto da far brillare al sole in caso ci si perda insieme a un razzo. E cibo. Io porto con me 18mila calorie da gestire tutto il tempo, meno di 3mila al giorno». Quale cibo? «Uso solo cose naturali - continua - come i multicereali per bambini, parmigiano, barrette energetiche. Così mangio anche la sera al campo senza dover accendere fuochi e dover dipendere dagli altri. Non voglio chiedere aiuto a nessuno. L’acqua? Ad ogni check-point lungo il tragitto puoi riempire le borracce che ti porti dietro, poca comunque perché il peso è micidiale. Alla fine di ogni tappa ti vengono dati tre litri e quelli ti devono bastare. Non ci si lava, stesse scarpe, calze e maglietta tutto il tempo». Olmo ha iniziato a correre a 26 anni, «quando gli altri smettevano di fare sport», ama ripetere. E oggi che ha gareggiato in tutti i deserti del mondo sa il fatto suo: «A febbraio ho corso la Sahara Marathon in Algeria, siamo andati nei campi profughi portando messaggi e beneficenza, una gara emozionante». Sofferenza e soddisfazione, fatica vera che stride con la determinazione e la convinzione di potercela fare. Finché in preda allo sfinimento in gara ti fai la fatidica domanda: «Ma chi me l’ha fatto fare?». «Certo che te lo chiedi. Impari a convivere con l’ansia e l’incognita che qualcosa non vada bene, ma cerchi sempre risposte positive dentro di te. Ho 65 anni e sono libero. E voglio esserci ancora l’anno prossimo, sarà la ventesima presenza».
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