mercoledì 14 marzo 2018
«I racconti che fondano precisamente l’identità ebraica sono racconti di "estrazione". Il nostro futuro è essere figli di Abramo: le fedi non dovrebbero cercare rivalsa come Caino ma la fratellanza»
La rabbina francese Delphine Horvilleur

La rabbina francese Delphine Horvilleur

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Delphine Horvilleur è una delle poche rabbine donne di Francia. Fa parte del Movimento ebraico liberale e ora si fa conoscere al pubblico italiano con un libro molto gradevole, Come i rabbini fanno i bambini. Sessualità, trasmissione, identità nell’ebraismo (Giuntina, pagine 162, euro 15,00). In questo testo, il primo tradotto in italiano, Delphine Horvilleur dà prova di eccezionali doti esegetiche, rileggendo diversi brani della Sacra Scrittura attraverso la categoria della generazione.

Nella sua personalissima interpretazione l’Eden è una grande sala parto e il primo uomo come un neonato che nasce. E lo stesso vale per l’Esodo. Quali sono le conseguenze antropologiche di questa sua visione “generativa” delle vicende bibliche?

«I racconti più centrali della Torah e quelli che fondano precisamente l’identità ebraica sono racconti di "estrazione": si tratta sempre di uscire da una matrice, da un luogo che ci ha dato la nascita e dal quale ci si deve estrarre. È il caso del giardino dell’Eden da cui l’uomo è espulso; è, ancora di più, il caso delle narrazioni della vita di Abramo e dell’uscita dall’Egitto. Abramo lascia la casa di suo padre e la città della sua nascita, Ur, nel paese dei caldei. Si mette in cammino verso una terra promessa e verso se stesso. Essere un figlio di Abramo (quello che le tre religioni monoteistiche rivendicano) è dunque sempre un po’ riprodurre questo viaggio, questa partenza da se stessi e dalla proprio zona di benessere. La stessa cosa avviene con l’Esodo, ovvero l’uscita dalla schiavitù. Il popolo ebreo nasce in Egitto, che è incontestabilmente la matrice del popolo. Le metafore bibliche sono molto eloquenti. Si dice che la discendenza di Giacobbe prolifera in Egitto e si sviluppa fino a quando non ha più spazio. E’ come se il feto ebraico fosse al termine della sua crescita uterina. Allora inizia il lavoro della nascita. Le 10 piaghe si abbattono sull’Egitto come i dolori di uno sforzo ostetrico. Il popolo si mette in cammino e nasce a se stesso mettendosi in marcia verso il proprio destino e la propria autonomia».

Nel suo libro lei indaga la vicenda di Caino e Abele collegandola essenzialmente alla questione della responsabilità, della libertà e dell’ingiustizia. Quale è l’insegnamento principale che da questo racconto primordiale può giungere alla nostra società?

«Il primo omicidio della storia è un fratricidio. E dall’inizio della Genesi, e dell’umanità, è sempre la stessa domanda a farsi largo: come riuscire a vivere con mio fratello, ovvero con l’altro? Quando Caino ammazza suo fratello, Dio gli domanda: Che hai fatto? E l’assassino risponde: Sono forse io il custode di mio fratello? È la stessa domanda che risuona nei conflitti odierni. Nessuno sa ciò che significa "essere il custode di mio fratello". Oggi esiste nella società un fenomeno ben conosciuto che si può chiamare "competizione vittimistica". Ognuno, a qualsiasi prezzo, cerca di dimostrare che è stato peggio dell’altro, che ha molto sofferto, che le pene dei suoi antenati superano quelle del vicino. Ed è come se la dimostrazione di questo dolore vissuto o ereditato donasse dei diritti a colui che ne viene colpito. Come se la sua violenza (come quella di Caino) non fosse che una forma di legittima difesa o di rivalsa sulla propria storia. Tutto questo è assurdo e pericoloso».

Cosa dovrebbe insegnarci allora il male?

«Anzitutto che esiste in noi una capacità di superare eventi traumatici e difficoltà o in ogni caso che dobbiamo tentare di costruirla, di "verticalizzarci", di levarci e diventare attori delle nostre storie. È esattamente questo il senso della parola responsabilità: la capacità di apportare una risposta, di ritrovare la parola rispetto alla propria storia e di non restare nel silenzio tipico della vittima. L’essere muto, in ebraico, si scrive proprio come la parola violenza. Se il restare in silenzio e la violenza hanno la medesima radice, il ritorno alla parola è una chiave per liberarsene».

La vostra capacità esegetica mostra la fecondità universale della lettura della Bibbia per la cultura attuale. Perché spesso il mondo intellettuale contemporaneo non vuole ascoltare la voce delle religioni?

«Non so se questo sia vero. Direi che la società "laica" si fida sempre meno di quello che le voci religiose possono offrire come lettura del mondo. E da questo punto di vista la società può anche non avere tutti i torti. Per dirla in altre parole direi che nella teoria una società ha torto a misconoscere il messaggio apportato dalle religioni, dai testi e dalle sapienze antiche. Nella pratica, spesso ha ragione quando una voce religiosa non conosce altro se il conservatorismo o pensa di detenere una verità egemonica. Le nostre tradizioni religiose possono insegnarci a porre le domande, ma troppo spesso ci fanno credere che possono rispondervi in via definitiva. Il contrario della conoscenza non è mai l’ignoranza, ma la certezza chiusa in se stessa».

La sua lettura esegetica smaschera il pregiudizio laicista secondo il quale la Bibbia è contraria alla sessualità. Quale visione di tale dimensione hanno i testi della Scrittura?

«La tradizione rabbinica non è per nulla ascetica. Al contrario afferma che dovremo rendere conto di quello che abbiamo fatto quando non avevamo il diritto di farlo, ma anche di quello che non abbiamo fatto quando si aveva il diritto di farlo. In pratica, l’eccesso di zelo o l’ascesi sono cose un po’ sospette, secondo i rabbini. Essi pensavano che la sessualità dice qualcosa della trascendenza, del suo posto nelle nostre vive, ovvero la possibilità di essere in relazione con un al di là di noi. Esistono nel Talmud magnifici racconti sulla sessualità dei saggi. Una storia famosa racconta che un giorno uno studente si nasconde sotto il letto di suo padre mentre questo è in intimità con la moglie. Quando il maestro se ne rende conto dice all’allievo: "Esci di qui, questo non si fa". E l’allievo risponde: "Ma insomma, anche questo è la Torah e io devo impararla". Cosa significa questa storia? La vita amorosa testimonia la grandezza e la sacralità delle nostre vite. Forse è proprio qui che incontriamo il divino».

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