lunedì 16 febbraio 2015
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​«Sono giunto alla fine. Voglio solamente sottolineare che nessuno ha il diritto di privarsi di questa felicità, la Commedia […]. All’inizio si deve leggere il libro con la confidenza di un bambino, abbandonarsi ad esso; e allora ci accompagnerà per tutta la vita. […] So che questo libro andrà oltre la mia veglia e le nostre veglie»: così Borges, inaugurando con la Divina Commedia le sue Sette notti. La Commedia, aggiunge Borges, ci è più chiara oggi che nel Trecento, perché i poeti del Novecento (Pound, T. S. Eliot, Mandel’štam, Caproni, Sanguineti, Giudici, Luzi, ma anche E. L. Masters e Beckett) l’hanno riscritta per noi. È poema dell’eternità e dell’evento, del Giubileo dell’anno 1300 [ma scritto tra il 1306 e il 1321, data della morte di Dante], di Firenze e dell’universo, della Bibbia e della storia di Roma, di miti pagani e di padri della Chiesa, di tutto il pensabile, il dicibile e l’indicibile, sino ai neologismi teologici che popolano il Paradiso.E tuttavia, nel fondo, la Commedia resta commedia. È un affascinante incedere di epos e dialogo. Eternità e memoria collettiva dell’umano. La sua verità gnomica è tale che parte cospicua dei suoi versi si è fatta proverbio, detto morale o memorabile, sentenza, rifugio nella citazione, ogni volta che il nostro dire si fa corto: «Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate». Osserva opportunamente Gian Luigi Beccaria nella sua lezione Mia lingua italiana (2011) che Dante non è solo artefice di mondi eterni, ma anche responsabile delle nostre immagini ed espressioni più quotidiane, come se noi ci rifugiassimo nella Commedia per dar linfa ai nostri giudizi: così il «natio loco», «le dolenti note», il «discendere per li rami», «perdere il ben dell’intelletto», «senza infamia e senza lode», «ma guarda e passa», «mi fa tremare le vene e i polsi». A questi, altri "detti memorabili" potrebbero essere aggiunti, che punteggiano il nostro dire, enfatico o dolente, malinconico o fervido: «Per me si va ne la città dolente», «e caddi come corpo morto cade», «Era già l’ora che volge il disio / ai navicanti e ’ntenerisce il core», «Siena mi fe’, disfecemi Maremma», «trattando l’ombre come cosa salda», «L’aiuola che ci fa tanto feroci», «A l’alta fantasia qui mancò possa», e così camminando e con lui il mondo misurando. Per questo Dante ci è familiare, perché parliamo con le sue parole tutti i giorni: familiarità con Dante che, più che dai critici, ci è stata restituita da Roberto Benigni.
E siffatta vivezza plastica del verso dantesco è tale perché il muoversi dei personaggi è, nel dire e nel porgere la parola, in sé scenico. La Commedia, è commedia: è il poema più dialogico di tutta la nostra letteratura: sfilano comparse, protagonisti, papi e liutai, parlano dal basso, rasoterra, infitti in ghiaccio e pece, oppure a petto erto d’orgoglio («"Vedi là Farinata che s’è dritto: / da la cintola in sù tutto ’l vedrai". / I’ avea già il mio viso nel suo fitto; / ed el s’ergea col petto e con la fronte / com’avesse l’inferno a gran dispitto»; Inf., X, 32-36); o dall’alto, «regalmente ne l’atto ancor proterva», tale Beatrice al suo apparire (Purg., XXX, 70). Come a teatro, ci sono dialoghi e monologhi, duetti serrati, ma anche straordinari "a parte": così Beatrice stessa che, discosta, finge sorridendo un colpo di tosse per metter fine al troppo caldo autoelogio di Dante e Cacciaguida, e della lor famiglia: «onde Beatrice, ch’era un poco scevra, / ridendo parve quella che tossio / al primo fallo scritto di Ginevra» (Par., XVI, 13-15): e pensare che la fonte è niente meno che il Lancelot, ma Dante tutto curva e fa convergere al proprio spazio! Giustamente Sanguineti, Luzi, Giudici, hanno fatto delle tre cantiche un’azione scenica (1989, 1990, 1991). Dante è teatro, e anche danza, che salta i versi e divide le parole: «così quelle carole, differente-/ mente danzando, de la sua ricchezza / mi facieno stimar, veloci e lente» (Par., XXIV, 16-18). E la "teodia" del Paradiso, lungi dall’essere squadrato sillogismo, è luce, lume e folgore, abbacinante incendio e cristallo; vorrebbe coreografi-teologi, capaci di star dietro a quelle terzine: «Mentr’io diceva, dentro al vivo seno / di quello incendio tremolava un lampo / sùbito e spesso a guisa di baleno» (Par., XXV, 79-81).Ma la Commedia è soprattutto poema dell’eternità: l’oltrevita è più che la vita; è la realtà stessa definitiva dell’essere umano: sic praeterit figura huius mundi (1 Cor 7,31): per Dante infatti questa scena terrena è soltanto figurazione di Hollow Men, di «uomini vuoti» (Eliot, 1925), che deambulano nel nulla, come riconosce, nel più profondo Inferno, frate Alberigo dei Manfredi, riconoscendo che sopra la terra quella parvenza che sembra ancor viva è solo di lui l’involucro, mentre già tutta nella «ghiaccia» è la sua anima e persona: «"Oh - diss’io lui - or se’ tu ancor morto?" / Ed elli a me: "Come ’l mio corpo stea / nel mondo su, nulla scïenza porto. / Cotal vantaggio ha questa Tolomea, / che spesse volte l’anima ci cade / innanzi ch’Atropòs mossa le dea"» (Inf., XXXIII, 121-126). Nel Paradiso stesso Dante si fa abbandonare da Beatrice, in nome della quale pure ha costruito il viaggio e il poema: «Così orai; e quella, sì lontana / come parea, sorrise e riguardommi» (Par., XXXI, 91-92); versi che Borges ha interpretato sulla scorta della traduzione inglese di Longfellow, con fortissimo iato a fine verso: «sì lontana» in vita e ancora nell’eternità. E forse tanto volle perché, orfano d’amore come ogni credente, trovasse nell’ "Inno alla vergine" elevato da san Bernardo, speranza d’amore; ma di questo nuovo ignoto regno, a differenza di Ulisse e di Alessandro, non celebra sapienza né ritorni, ma solo la vertigine infinita di una visione che, manifestandosi, vien meno nel turbine del tempo che ricomincia: «Ma già volgeva il mio disio e ’l velle / […] / l’amor che move il sole e l’altre stelle» (Par., XXXIII, 143-145). Di quei versi estremi del poema, il figlio Pietro Alighieri ha scritto forse il più profondo commento e perenne lezione: «et ejus velle ex parte sui, volvebatur in non plus velle»; un volere che cessa di volere, nell’abbandono all’infinito.
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