lunedì 12 settembre 2011
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Italo Balbo fu un personaggio complesso, ebbe una vita avventurosa, violento agli albori del fascismo, eroico traversando il cielo dell’Atlantico, esponente di una visione civile della missione coloniale quando fu nominato governatore della Libia, senza fortuna quando all’inizio della seconda guerra mondiale il suo aereo si sfracellò sull’arida terra vicino a Tobruk. Molto si è scritto sulla gelosia di Mussolini per il personaggio, capace di dargli ombra, si disse che lo nominò governatore della Libia per mettere in salvo Roma. Se Vittorio Emanuele diceva che i Savoia regnano uno alla volta e teneva lontani i principi del sangue, Mussolini voleva che a capo del fascismo ci fosse un uomo solo, senza neppure la possibilità di un rivale, quasi fosse immortale. Come finì lo sappiamo. Il Maresciallo dell’aria Italo Balbo era un bell’uomo, aveva modi cortesi pur con un velo sempre di autoritarismo, ricordo di aver letto una sua lettera di rimprovero sans merci a uno degli uomini che rappresentavano le istituzioni cittadine, amava l’eleganza, sedotto dal fasto che lui stesso permetteva nella piccola corte di Tripoli. Sembrava, in Africa, voler rievocare altri tempi, così me lo descriveva in età repubblicana in casa mia tanti anni dopo una bella signora, moglie dell’addetto navale al Quirinale. Con quel che abbiamo visto nell’evoluzione del costume sociale nei decenni successivi, si provava quasi ammirazione e nostalgia di quella società pur posticcia. E poi nella rappresentazione c’era un trucco, di cui si era complici: come in età monarchica, tutto era riferito a un regnante, lontani dalla confusione dell’oggi: Balbo aveva sostituito il volto eroico di Mussolini con un aspetto quasi sempre amabile. Ma il trucco vero era voluto dalla Storia. Quella terra contesa da decenni (1911) fra i colonialisti e gli autoctoni, aveva trovato un momento di requie che favorì il progresso: poi tutto fini nell’orrore della guerra mondiale. Ma insomma a Balbo giunto su quelle coste più di vent’anni dopo il corpo di spedizione (1934) non toccò di affrontare una ribellione, e il suo merito è di averne saputo approfittare, nella qualità, appunto, di governatore di quello spazio infinito. Un giorno, poco prima dello scoppio della guerra del ’40, irritato dal comportamento dei concittadini laggiù emigrati con varia fortuna, non esitò a convocarli tutti nel grande teatro cittadino, una delle meraviglie del regime coloniale, e col tono aggressivo di cui era maestro all’occorrenza fece una filippica umiliante contro la boria dei coloni, senza risparmiare nulla e col tono più diretto, sembrava urlasse contro uno per uno i presenti, non si salvava proprio nessuno. La platea lo ascoltava sorpresa e sgomenta, tutto era cominciato con applausi di orgoglio patriottico. Quindi, abbassò la voce come volesse sottolineare il disprezzo, come non riuscisse a vincerlo, e articolò: Partite con gli zoccoli e arrivate con i guanti! La società coloniale sopravvisse pure alla disfatta delle armi, venne un altro padrone, British Military Administration, nel ’52 si arrivò finalmente all’indipendenza del Paese. Gli affari continuavano, la boria pure, anche se in forme meno appariscenti. Ma gli ex coloni, assai ridotti di numero, ad ogni momento esplicitamente o implicitamente non mancavano di compiacersi dell’abisso che a loro avviso pur sempre li separava dagli autoctoni. Tutto era fuori tempo massimo e l’aristocrazia sembrava formata da brava gente che coltivava un senso di superiorità che non portava più da nessuna parte: non avevano più il contatto con la Storia. Anche la Madrepatria mutava nel frattempo, la ex colonia finita nel dimenticatoio. Che avvenne poi? La colonia italiana era stata conquistata nell’11 da superbe navi da guerra. Ecco adesso una nuova invasione in senso inverso: di povera gente che sbarca da natanti fatiscenti venuta qui da noi dall’Africa poverissima non per dominarci ma per servirci. Puntuali le mezze calzette di un tempo ricomparvero. Le ritroviamo in ogni salotto, in tutti i bar. I loro discorsi hanno lo stesso tono di quelli di ieri, quella povera gente straniera, di mondi lontani, finisce vilipesa fra serie ragioni di sicurezza e fastidio per il salto all’indietro cui sembrano costringere il Paese per il misero tenore di vita. Ma è soprattutto il distacco umano che impressiona. Persone qualunque si autorappresentano come nobiltà: abbiamo storia e romanzo, la principessa di Polignac e Mme de Guermantes, malrecitate. È come incontrare le coriste in libera uscita ancora in costume. Le filastrocche sono le stesse dell’età coloniale, età operistica per eccellenza: igiene, vestire, assenza di cultura, e via di seguito come alle soglie del deserto d’Africa. Ma non c’è più l’aura coloniale di ieri, fra supposta azione civilizzatrice, missione imperiale, grandezza della Patria: è come se si vedesse uno spettacolo delle coriste dell’opera mentre la musica se ne è andata. Nei salotti e nei bar (i poli della vita sociale) si muore di noia, di fastidio, più ancora di ieri ad ascoltare logorroiche chiacchiere. Insomma il problema di una emigrazione di popoli, già di per sé insolubile nella sua radice, i governi sono di fronte a scelte difficili, quasi tutte inadeguate, provvisorie (cosa consiglieremmo mai al ministro degli Interni per risolvere tutto?), ha tale penoso risvolto sociale: la decadenza fra i cittadini non in colonia ma nella Madrepatria della conversazione: sciatta, con acque vergognose, effluvi razziali, anch’essa un apporto fatale dell’immigrazione di questa povera gente. La presenza di un etnia giudicata inferiore, in colonia o nella Madrepatria, genera in soggetti deboli un’autoesaltazione dagli effetti deleteri, logorroici. Non è importante? Comunque più importante della decadenza della nazionale di calcio, se il dialogo delle menti la vince sui calci dei piedi. La partita delle parole è più importante del gioco dei piedi e la si chiama conversazione.
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