sabato 26 ottobre 2019
La bocciatura delle canzoni: solo una lingua-domopak. La sentenza nel saggio per la Settimana della lingua italiana nel mondo dedicata all'italiano sul palcoscenico
Il palcoscenico del festival di Sanremo (foto Ansa)

Il palcoscenico del festival di Sanremo (foto Ansa)

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Se il teatro è gioco (come ben insegnano gli inglesi che usano l’unico verbo play per “recitare” e “giocare”), anche la lingua che sale sulla ribalta è un divertissement. «Lavaceci» gridano nella Calandria di Bibbiena per dare a qualcuno dello “sciocco”. Denuncia un «barbaro oblio» Attilia nell’Attilio Regolo di Metastasio. Se la prende con un «soffione», ossia con una “spia”, Goldoni nella Bottega del caffè. Si cantano le «alpestri balze» o il «fatal orror» nella Donna del lago di Rossini. «Oh Madre santa!» urlano le donne nella Giara di Pirandello. E scrive De Filippo in Natale in casa Cupiello che Pasqualino è stato capace di restare a letto una settimana per «nu catarro», per “un raffreddore”. Fa il giro del mondo il «Core ’ngrato» di Caruso. «Timbuctù» e «babalù» fanno rima nella canzone Hemingway di Paolo Conte. E «feretrofobia» è il neologismo coniato in Settimo: ruba un po’ meno da Dario Fo che sotto i riflettori ironizza su un eloquio (falsamente) scientifico e quindi inventa la malattia di coloro che non sopportano di stare chiusi in una cassa da morto. L’italiano che da secoli va in scena è una lingua che unisce il «dire» e il «fare», che è aulica e popolare al tempo stesso, che sa commuovere e far ridere, che scherza con se stessa e con l’uomo.


All’“italiano sul palcoscenico” è dedicata la XIX Settimana della lingua italiana nel mondo, promossa dal ministero degli Esteri e dall’Accademia della Crusca, che si chiude domenica 27 ottobre. E lo stesso tema è al centro della Giornata ProGrammatica in onda su Rai Radio3 martedì 29 ottobre che sarà conclusa dalla serata speciale condotta da Giordano Meacci, voce del programma La lingua batte. Una lingua che, quando il sipario si alza, abbraccia il pubblico attraverso la voce, sia di un attore, sia del soprano o del tenore in un capolavoro lirico, sia di un cantautore. E si apre alla «realtà quotidiana intercettando, sia pure in forme a volte stilizzate, anche il plurilinguismo dei dialetti e i registri colloquiali», si legge nel saggio “L'italiano sul palcoscenico” curato dalla Crusca per la Settimana 2019 e diffuso online gratuitamente in questi giorni.


Accanto alla scrittura letteraria, il passato (e il presente) ci consegnano il filone linguistico del teatro – anche in musica – mosso dall’«esigenza di riprodurre o almeno evocare le dinamiche della conversazione ordinaria», scrive Pietro Trifone, docente di storia della lingua all’Università Tor Vergata di Roma. Si parte dal Cinquecento e da quella «mimesi del parlato» che è La mandragola di Machiavelli condita di «acciò» o di una sintassi raffinata ma anche di dialoghi serrati: «Che novelle?», domanda Callimaco; «Buone», risponde Ligurio. Conquista un posto di rilievo Goldoni che fa entrare nelle sue commedie un lessico realistico come «carte segnate» (“truccate”) o «barattieri» (“bari”). Poi irrompe l’opera lirica. Allora ecco il «nembo fiero» e chi «languia nel dolor» oppure la “lettera” che diventa «foglio» e le mani “legate” che sono «avvinte», secondo l’assunto che il linguaggio del melodramma debba essere inattuale.

Nel Novecento l’italiano recitato è quello di Pirandello (con il suo «nuovo parlato teatrale»), di De Filippo (con la sua abilità di fondere napoletano e italiano) e di Dario Fo che la Crusca inserisce fra «i massimi drammaturghi del teatro» nazionale del secolo scorso: non solo per le parodie linguistiche ma anche per il suo grammelot, quel gioco onomatopeico di suoni dove le parole sono limitate al dieci per cento e tutte le altre sono scivolamenti sconclusionati.

Quindi le canzoni. L’Accademia fiorentina mette il suo sigillo su ’O sole mio, Te voglio bene assaje o Tu vuo’ fa’ l’americano come esempi di incontro fra identità locale e diffusione globale. Ma boccia il festival di Sanremo definito la «tomba della lingua» e costruito intorno a una «lingua-domopak fabbricata al metro per canzoni-spettacolo di modeste ambizioni». Invece promuove il segno stilistico di Franco Battiato, di Francesco De Gregori (con i suoi versi al futuro “farò-volerò”, “scintillerà-bloccherà” della Donna cannone che danno un «tono favolistico») o di Angelo Branduardi (con Alla fiera dell’est). E soprattutto
Fabrizio De André
che grazie al mix con il genovese in Crêuza o con il napoletano in Don Raffaè crea un «artefatto poetico sospeso nel tempo e nello spazio». Che De André sia destinato a essere come Machiavelli o Pirandello? Chissà...

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