giovedì 31 dicembre 2015
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L’edificio dell’arcivescovado siriaco cattolico di Mosul incendiato. La chiesa di San Efrem nella stessa città irachena trasformata in moschea. La chiesa della Resurrezione a Qaraqosh fatta saltare in aria. Il convento femminile al-Nasard a Mosul, distrutto. La chiesa di San Tommaso nella stessa città, la biblica Ninive, trasformata nel centro di tortura dello Stato islamico. Istantanee che i lettori di Avvenire conoscono dalla cronaca. Ma che fanno davvero impressione se raccolte e messe in fila in un libro, perché danno l’idea del genocidio che i terroristi dell’autoproclamato Califfato stanno portando avanti in modo sistematico. Ma non sono solo i cristiani a pagare con il sangue e la memoria questo scempio: «Anche i luoghi di culto sciiti vengono sistematicamente distrutti dallo Stato islamico. La grande moschea sunnita Nabo-Younè di Mosul è stata fatta saltare in aria qualche giorno dopo la presa della città, nel giugno 2014». Il racconto è di uno che di Oriente ne sa, eccome: Sébastien de Courtois, produttore su France Culture della trasmissione «Chrétiens d’Orient», residente a Istanbul, da dove ha compiuto diversi viaggi nel Vicino Oriente non ancora soggiacente alle truppe di al-Baghdadi. E il racconto fluisce drammatico nel suo Sur les fleuves de Babylone, nous pleurions (Stock, pp. 192, euro 18.50), un lungo reportage sul «crepuscolo dei cristiani d’Oriente», come recita il sottotitolo. Da valente reporter e studioso della materia, de Courtois mette in fila i fatti e ne dà un’interpretazione. E così ci ripassano davanti gli omicidi a sangue freddo dei miliziani del Daesh, come il massacro di 700 persone uccise a sangue freddo nel villaggio di Kjo, nell’Iraq settentrionale, le donne incinte sventrate, la cattura e la ven- dita delle ragazze rese schiave del sesso per i miliziani.  De Courtois ha il merito di non circoscrivere la sua osservazione ai cristiani, ma di allargarla ad altre confessioni, ad esempio gli yazidi: ad essi i violenti del Daesh non danno nemmeno la facoltà di convertirsi all’islam, tanto li reputano indegni in quanto «adoratori del diavolo». E verso questa antica minoranza vale quanto dichiara monsignor Georges Casmoussa, già vescovo siro- cattolico di Mosul: «Gli yazidi difesero i cristiani nei massacri del 1915, ora tocca a noi aiutarli », riferendosi al genocidio armeno di matrice turca. Facendo eco a quanto denunciato più volte dal patriarca di Baghdad Louis Sako, de Courtois non trova – incontrando i cristiani di queste terre – altra motivazione al terrorismo di Daesh se non un autentico e sistematico lavaggio del cervello: «Un amico di scuola sunnita – racconta un cristiano al giornalista – mi ha chiesto al telefono perché non fossi già partito per l’Europa o gli Stati Uniti. 'Vattene, vai via, vai in un Paese cristiano!', mi ha detto. Il lavaggio del cervello è generale. Siamo diventati stranieri a casa nostra». Le discriminazioni arrivano fin dentro i campi profughi di quanti hanno dovuto lasciare tutto sotto la minaccia del Daesh: «Anche nei campi profughi siriani nel sud-est della Turchia, i sunniti si rifiutano di condividere le loro tende con gli yazidi». Su tutto questo de Courtois alza il velo dell’ipocrisia dell’Occidente e denuncia il silenzio 'ideologico' dell’Unione europea. Ad esempio, raccontando l’impegno dell’intellettuale ('laico') francese Régis Debray, che aveva redatto già nel lontano 2005 un documentato rapporto sulla difficile condizione della minoranza cristiana in Oriente. Dopo averlo inviato all’Unione europea, «si è sentito dire dai burocrati di Bruxelles che la situazione non era né urgente né universale». De Courtois avanza un’interpretazione di questo silenzio: sui cristiani d’Oriente si è abbattuta la stentorea visione terzomondista, applicando a quelle terre la lettura che era andata per la maggiore per Cuba, Vietnam e Cambogia. Ovvero, i cristiani sono «agenti dei colonialisti», e quindi in fin dei conti un po’ «se la sono cercata» (tanto per non fare nomi: qualche tempo fa Massimo Fini ha sostenuto una tesi simile). De Courtois offre poi una denuncia e un auspicio che fanno pensare. Di fronte a questo dramma – del milione e mezzo di cristiani nell’Iraq multi religioso pre-Saddam, ora ne restano poche centinaia di migliaia – cosa fanno le società arabe? «Esse non hanno mai guardato in faccia il loro passato né le loro derive, non hanno condannato il fanatismo, se non in Libano. Si sono dovuti attendere i massacri dello Stato islamico per ottenere reazioni coraggiose da parte delle autorità religiose islamiche ». E qui l’auspicio: che si levino più voci intellettuali dal mondo islamico – de Courtois cita Malek Chebel, antropologo algerino, e il compianto tunisino Abdelwahab Meddeb – per denunciare la sorte dei cristiani sotto il tallone islamista.
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