giovedì 17 settembre 2020
Occorre riflettere su come il mondo “civilizzato” si è ridotto a una giungla dove vengono calpestate le persone solo per il colore della pelle
il sociologo e reporter britannico Gary Younge

il sociologo e reporter britannico Gary Younge - Giorgio Boato

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Anticipiamo una parte dell’intervento che il sociologo e reporter britannico Gary Younge (autore di Un altro giorno di morte in America, edito in Italia da add) pronuncerà domenica a Bellinzona nell’ambito del festival di letteratura e traduzione Babel. Giunta alla quindicesima edizione, quest’anno la rassegna diretta da Vanni Bianconi ha scelto come tema “Atlantica”, invitando scrittori europei che guardano alle Americhe, traduttori che traducono scrittori dalle lingue europee delle Americhe, e scrittori americani che vivono in Europa. Da oggi a domenica Babel alternerà incontri all’aperto e nella tradizionale sede del Teatro Sociale di Bellinzona: da segnalare, in particolare, l’inaugurazione prevista per domani alle ore 18,30 presso l’Antico Convento delle Agostiniane di Monte Carasso. Tra gli ospiti Giorgio Vasta, Laura Pugno, Ilide Carmignani, Anna Nadotti, l’elvetico Peter Stamm, i messicani Juan Pablo Villalobos e Brenda Navarro. Per il programma completo www.babelfestival.com.

Il linciaggio di George Floyd da parte della polizia di Minneapolis, il 25 maggio, è stata una chiara e brutale manifestazione della violenza razzista. Mostruosità come questa, in cui un criminale con un distintivo e un numero di matricola viene ripreso da una telecamera, sono diventate un fenomeno dolorosamente familiare che rischia di deformare la portata e l’entità della sfida razziale che dobbiamo affrontare. È stato questo episodio a spingere decine di migliaia di persone a scendere in piazza in tutti gli Stati Uniti, innescando talvolta violenti scontri con la polizia, e a suscitare manifestazioni di solidarietà in tutta Europa. Ma l’omicidio di George Floyd non è l’unico motivo per cui il movimento continua. La crisi del coronavirus ha dimostrato che il razzismo uccide in modi molto più subdoli e con numeri di gran lunga superiori senza offrire un gioco di moralità che possa essere condiviso sui social network. Quando la polizia e i politici ordinano ai manifestanti di tornare nelle loro comunità, sembrano dimenticare che è proprio lì che questi muoiono in modo tanto sproporzionato: che lo slogan «Non respiro» – tra le ultime parole pronunciate da George Floyd mentre il poliziotto gli premeva un ginocchio sul collo – rappresenta il tessuto connettivo tra le forme più spudorate di violenza di Stato e le banali tribolazioni del malato durante la pandemia.

«Queste disuguaglianze sono sistemiche proprio perché trascendono non solo i partiti, ma anche il tempo», ha dichiarato al “New York Times” Stacey Abrams, politica della Georgia in corsa per il ruolo di futura vicepresidente di Joe Biden. «Dobbiamo essere molto chiari nell’affermare che non si tratta solo di un momento o di un omicidio, ma dell’intera infrastruttura della giustizia». Non c’è bisogno di sovrapporre artificialmente il paesaggio razziale statunitense a quello britannico per renderci conto che le problematiche sollevate dall’omicidio di George Floyd potrebbero trovare terreno fertile oltreoceano. L’Europa non ha i livelli di diffusione delle armi da fuoco degli Stati Uniti, e neppure la sua classe media nera, le sue istituzioni nere o i suoi gradi di segregazione. Le nostre disuguaglianze operano in modo diverso, ma non per questo sono meno evidenti. E soprattutto, per quanto riguarda il virus, continuano a operare. Se sull’altra sponda dell’Atlantico le modalità di raccolta dei dati sui decessi per Covid-19 sono diverse, le disparità razziali sono come minimo comparabili. E siccome non ci siamo arrivati a questo punto per caso, non ne usciremo per caso. Che cosa possiamo fare? A breve termine la risposta è piuttosto semplice. Se da una parte le minoranze sono colpite in modo sproporzionato dalla malattia, dall’altra sono assistite in modo altrettanto sproporzionato da qualsiasi sforzo per combatterla. Più dispositivi di protezione individuale saranno messi a disposizione degli infermieri e degli operatori sociosanitari, più le persone eviteranno i trasporti pubblici e più i cittadini avranno accesso a test e tracing, più le disparità etniche e razziali si ridurranno. Così come la negligenza del Governo britannico ci ha esposti alla malattia, la sua vigilanza ci renderebbe notevolmente più sicuri. La lotta contro le disuguaglianze razziali emerse durante la pandemia non andrà solo a vantaggio dei neri – non più di quanto abbiano fatto le battaglie per i diritti civili o per la creazione di una polizia di prossimità. In una crisi sanitaria tutto ciò che aiuta una porzione significativa della popolazione aiuta tutti. Ne consegue che a medio termine si renderà necessaria un’inchiesta pubblica completa e indipendente sulle disparità razziali nel numero dei decessi. Anche l’indagine governativa britannica si è limitata a confermare ciò che già sapevamo – cioè la prevalenza delle disparità etniche – benché le sue conclusioni sulla vulnerabilità dei vari gruppi differissero sostanzialmente da quelle dell’Ufficio statistico nazionale. Se infatti ha tenuto conto della povertà (tra altri fattori), non ha proposto nessuna misura per combatterla né ha elaborato un’analisi sulle ragioni della sua entità.

Ora il governo ha ordinato un nuovo studio sulle comorbidità guidato dalla ministra per le Pari opportunità Liz Truss. Ma poiché le patologie come l’obesità e l’ipertensione sono spesso legate a fattori socioeconomici, potrebbe essere accusato di mordersi la coda. Non è necessario contestare le conclusioni della ministra Truss per riconoscere l’obiettivo di questa linea di indagine: lasciare indisturbato il sistema che produce le disuguaglianze sanitarie spostando la responsabilità della vulnerabilità sull’individuo (il suo stile di vita, la sua dieta e il suo regime generale), come se le sue scelte fossero del tutto scevre dell’influenza sociale e razziale. Un’indagine diligente non può limitarsi a individuare le responsabilità laddove opportuno, ma deve esaminare le pressioni, le decisioni, i contesti e gli ambienti che hanno reso la situazione tanto disastrosa. Per il razzismo sistemico potrebbe rappresentare ciò che il rapporto Macpherson del 1999 ha rappresentato per il razzismo istituzionale, cioè una mappa del complesso e talvolta invisibile rapporto tra potere e discriminazioni che troppo spesso intrappola le persone benintenzionate in strutture di oppressione, e le persone di colore in circostanze disperate. Un gruppo di personalità pubbliche appartenenti alle minoranze etniche ha già esortato il governo a elaborare una «strategia di uguaglianza razziale legata al Covid-19». [...] Il fatto che la pandemia abbia messo in luce queste disuguaglianze non implica che lo Stato le affronterà. È anzi probabile che il governo cercherà di sfruttarle per rimodellare il mondo alla sua immagine ideologica. Non sarebbe la prima volta che la richiesta di una riorganizzazione di «tutta l’infrastruttura della giustizia» si traduce in una maggiore ingiustizia.

(Traduzione di Silvia Manzio)

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