venerdì 13 marzo 2009
La risurrezione della carne, mistero per i credenti e pungolo per i teologi. Canobbio: «Ma attenti a non cadere in una nuova gnosi» Cavalcoli: «Non ci sarà androginia. Rivivremo l’armonia dell’Eden tra maschio e femmina». Colzani: «La redenzione della carne indica quella dell’uomo nella sua interezza»
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«Dio nella sua onnipo­tenza restituirà defini­tivamente la vita in­corruttibile ai nostri corpi riunen­doli alle nostre anime, in forza del­la risurrezione di Gesù». Così il Ca­techismo della Chiesa Cattolica ri­badisce la verità dogmatica della ri­surrezione della carne, ripetuta da ogni cattolico nel Credo. Mistero lu­minoso che nelle sue modalità «su­pera le possibilità della nostra im­maginazione e del nostro intellet­to », ma che nondimeno da sempre affascina e interroga credenti e teo­logi. Mossi dalla santa curiosità di sapere come sarà davvero il nostro corpo glorioso. «Nelle narrazioni dei Vangeli abbia­mo alcuni episodi in cui Gesù ri­sorto non viene riconosciuto subi­to – spiega padre Giovanni Caval­coli, dello Studio filosofico dome­nicano di Bologna –. Secondo san Tommaso la Scrittura ci vuole far capire che il corpo del Signore è ri­sorto sì a una vita fisica, tanto che si lascia toccare, ma una vita fisica tra­scendente, sproporzionata alla no­stra capacità visiva terrena, a meno che la grazia non illumini i nostri occhi. Così sarà anche per le sem­bianze e le qualità dei nostri corpi risorti». Manterremo allora un legame con la nostra identità di oggi? Saremo ri­conoscibili, magari anche per i no­stri attuali difetti? Secondo don Gia­como Canobbio, docente alla Fa­coltà teologica dell’Italia Setten­trionale, «su questo tema la rifles­sione teologica lungo i secoli si è sbizzarrita, senza trovare una ri­sposta soddisfacente. Si può certo dire che i nostri tratti resteranno, fanno parte della nostra identità, tuttavia non si può immaginare di portare con noi i nostri difetti, poi­ché in tal caso non vi sarebbe risur­rezione nel senso di compimento della nostra identità. A questo ri­guardo merita ricordare che la teo­logia classica parlava di una risur­rezione dell’anima che determina quella del corpo». Ma le piaghe del Signore risorto? Non implicano che anche noi porteremo nell’aldilà i se­gni della nostra sofferenza terrena? «Si deve tenere presente che le feri­te di Gesù sono la traccia della sua dedizione. In questo senso, se delle nostre ferite resteranno saranno quelle procurate dall’amore vissu­to. Diversamente si dovrebbe pen­sare che la nostra persona non sa­rebbe guarita neppure dalla risur­rezione e ciò comporterebbe la ne­gazione della risurrezione stessa». Anche sull’«età» ci si è interrogati a lungo nei secoli. Il nostro corpo avrà gli anni con cui ha cessato di vivere sulla Terra? Sarà quello di un vecchio, di un eterno ragazzo? O come ipotizzava Maritain lo ri­troveremo all’«età» di 33 anni? «Nella lettera agli Efesini si parla di Gesù come uomo nuovo – ricorda don Gianni Colzani, docente alla Pontificia Università Urbaniana –, in cui la vita umana raggiunge la sua pienezza. Per questo, per e­sempio nel Medioevo, si è spesso fatto riferimento ai 33 anni del­l’uomo risorto. Ma sono riferi­menti da leggere nel loro rimando simbolico al Cristo, di cui condivi­deremo la gloria e la potenza con tutto noi stessi. Tra l’altro noi par­liamo di 'risurrezione della car­ne', ma nella Bibbia con sarks, carne, si intende l’uomo nella sua completezza. Sull’'età' non pos­siamo dire nulla di certo». Certo è invece il fatto che rimarre­mo per sempre uomini e donne. Nessuna androginia sarà possibile nell’aldilà. Padre Cavalcoli: «Su questo anche Giovanni Paolo II ha detto cose molto importanti, e­splicitando alcune intuizioni di Tommaso d’Aquino. Ha collegato la prospettiva escatologica alla prospettiva edenica. Nella creazio­ne è detto che 'maschio e femmi­na Dio li creò', con una prospetti­va di unione fra uomo e donna che non è necessariamente quella matrimoniale e procreativa. Il Pa­pa ha precisato che nella risurre­zione ci sarà la ricostituzione di questa innocenza primitiva, di questo amore casto e puro, ma al­lo stesso tempo intenso, anche fi­sico». Vuol dire che l’amore fra gli sposi è destinato a durare in eter­no? «La sessualità della vita pre­sente è legata alla procreazione, mentre nella risurrezione l’opera della procreazione sarà cessata, perché nel mondo dei risorti non c’è più l’aumento della specie u­mana. È quello che intende il Si­gnore quando avverte che coloro che 'sono giudicati degni dell’al­tro mondo e della risurrezione dai morti, non prendono moglie né marito'. Ma l’amore delle coppie di sposi che in questa vita hanno vissuto intensamente il loro rap­porto coniugale, o l’affetto di san­te amicizie tra uomo e donna, re­sterà». Ritroveremo quindi i nostri cari, magari anche le nostre amicizie? «La nostra beatitudine – continua sempre padre Cavalcoli – sarà la visione immediata dell’essenza di­vina, del volto di Dio, come è stato definito da Benedetto XII nel 1336. Da questa verità di fede si posso­no dedurre dati non dogmatici ma di dottrina certa, fondata sulla tra­dizione teologica. Per esempio che in questa gioia perfetta, che contiene tutte le gioie e i valori, godremo anche della felicità di ri­trovare i nostri affetti di quaggiù, in una pienezza di comunicazione umana trasfigurata». Posto tutto ciò, una realtà di beati­tudine eterna, dove saremo faccia a faccia con Dio, in cui ritrovere­mo redenti anche i nostri santi a­mori terreni e in cui pure la nostra corporeità parteciperà di questa e­stasi, resta da capire perché pro­prio la risurrezione della carne sia stata combattuta dagli gnostici nei primi secoli della Chiesa e oggi si contrapponga ad essa uno spiri­tualismo orientaleggiante o di marca New Age. Perché cioè una ricorrente ostilità verso questo specifico – e così consolante – dogma? «Il motivo del riaffacciarsi di tendenze gnostiche sembra da cercare nel tentativo, un po’ goffo per la verità, di sfuggire alla ridu­zione scientista della realtà» com­menta don Canobbio. «Appare tuttavia pericoloso: le tendenze dualiste, che negano il valore della 'carne', hanno conseguenze ne­faste sulle relazioni interpersonali; conducono a volte a usare il corpo (in genere quello degli altri) anzi­ché a rispettarlo. In tal senso la confessione di fede nella risurre­zione della carne, per quanto vo­glia dire che si tratta della risurre­zione della persona nella sua di­mensione di fragilità e quindi di mortalità, è un antidoto alla nega­zione depressiva di sé e degli altri. Dice infatti il valore di quanto sia­mo stati fatti essere dal Creatore».
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