domenica 6 dicembre 2009
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«Un omino con le ruote contro tutto il mondo. Un omino che non ha la faccia da campione, con un cuore grande come l’Izoard…». Queste due istantanee della canzone Coppi di Gino Paoli fotografano perfettamente la più grande leggenda della storia del ciclismo. L’uomo che dopo Ottavio Bottecchia, il primo italiano vincitore di un Tour (nel 1924), ha fatto innamorare i francesi che invidiavano a noi macaronì quel tesoro umano e sportivo del Fostò che aveva persino un antagonista quasi pari al suo livello, Gino Bartali. Ginettaccio, l’amico-nemico, forte anche lui, ma mai quanto Fausto che per 179 volte arrivò prima dell’acerrimo tosco al traguardo. L’Italia del dopoguerra, tra le macerie dei bombardamenti, ladri di biciclette e la fame degli sciuscià, se trovò il coraggio di risollevarsi fu anche grazie alla spinta di quella sfida tra due uomini veri, con le ali al posto dei pedali. Una corsa che si interruppe troppo presto per l’Airone di Castellania. Aveva ancora tanta voglia di spingersi oltre i limiti e le leggi non scritte del ciclismo, che a quarant’anni però, da sempre, fa suonare la campanella dell’ultimo giro, anche per il più grande e resistente dei suoi campioni. Ne aveva appena quarantuno, quel 2 gennaio del 1960, quando l’ex garzone del salumiere di Novi Ligure fu costretto ad abbandonare per sempre questa terra e tornare un granello di polvere di quelle strade bianche su cui aveva lasciato impressa l’anima nella gomma di due copertoni. L’uomo che aveva sfidato tutte le cime tempestose e le salite più impervie per le due ruote, era finito steso su un letto per una malaria africana presa in Alto Volta, durante una battuta di caccia tra amici. A rileggerla oggi quell’ultima pagina di una vicenda sportiva scolpita a caratteri d’oro, si coglie la rabbia e lo stupore di un Paese smarrito, che aveva perso il suo beniamino più amato e discusso in tutti i Bar Sport dell’Italia del boom. Un epilogo banale che sarebbe stato possibile evitare con una semplicissima dose di chinino che invece a Coppi non venne somministrata. Chiuso il sipario, riaprendolo cinquant’anni dopo più che gli innumerevoli trionfi del recordman, dietro il profilo ossuto e all’ombra di quel naso affilato che tagliava il vento, scende un velo oscuro e una nebbia fitta di solitudine. Un uomo solo al comando, certo, ma non solo in gara, anche nella vita. Coppi era un solitario per scelta, per indole e per il senso di pudore incamerato dagli uomini semplici, senza studi, quelli onesti di una volta che quando non sapevano, se ne stavano in silenzio per paura di sbagliare o ancor peggio per timore di essere derisi pubblicamente e bollati come ignoranti. La sconfitta più grande non fu una “cotta” sul Galibier, né la più maligna delle cadute nell’annus horribilis 1951, ma la perdita di suo fratello Serse. Nel ’49, l’anno della mitica fuga solitaria di Coppi, i 193 km nella Cuneo-Pinerolo al Giro, il fratello più piccolo e tanto amato che rappresentava simbolicamente l’altra faccia di Fausto, quella allegra e spensierata, ebbe il suo unico momento di gloria imponendosi nella classica che il geniale Pélissier definì «l’inferno del Nord», la Parigi-Roubaix. Due anni più tardi, durante la Milano-Torino, Serse cadde e picchiò violentemente la testa contro un marciapiede. Si rialzò, sorrise al fratello preoccupato, invitandolo a continuare la sua corsa. Quella di Serse sarebbe finita poche ore dopo per un’emorragia. Fausto a quel punto avrebbe voluto smettere, ma a farlo desistere dall’idea di abbandonare le corse arrivò una borraccia carica di saggezza fraterna e a passarla di sicuro questa volta fu Bartali.«Anche a me è morto mio fratello Giulio nel ’36 per un incidente di corsa, eppure sono andato avanti…», disse Ginettaccio a Fausto che si rimise presto in sella andando a vincere il Giro d’Italia del 1952 (in tutto ne vinse cinque), il suo secondo Tour de France e il titolo mondiale del ’53 a Lugano. Quel giorno, al traguardo ticinese, sul podio fece la sua prima apparizione accanto al campione del mondo Giulia Occhini, maritata in Locatelli, la donna che il giornalista francese Pierre Chany manderà alla storia come la dame en blanc. Con la «Dama bianca» scattò in testata quel giornalismo gossiparo che all’epoca fungeva da gregario al giornalismo vero e letterario, quanto il fido Ettore Milano lo era di Coppi. Quello tra la stella suprema del ciclismo e la sua Dama bianca divenne un caso internazionale, ma soprattutto, come scrive Gabriele Moroni in Fausto Coppi. Solitudine di un campione (Mursia) fu «l’adulterio più famoso d’Italia». Un processo alla morale del tempo che ebbe per protagonisti involontari tre bambini: Marina, la figlia che Coppi aveva avuto da sua moglie Bruna, e i due piccoli nati dall’unione tra la Occhini e il dottor Locatelli – tra l’altro coppiano sfegatato –, Loretta e Maurizio. Dinanzi al giudice che lo incalzava con la domanda se un giorno pensasse di tornare da sua moglie, a testa bassa Coppi rispose: «Il destino è nelle mani di Dio…». Dopo il carcere e la condanna a tre mesi per la «Dama bianca», Coppi, nonostante i richiami di Bruna e dell’anziana madre Angiolina a ritornare sotto il tetto coniugale, non ebbe il coraggio di abbandonare quella donna, additata da tutt’Italia come la peccaminosa adultera, al suo destino. Giulia così divenne la madre del suo secondo figlio, Faustino, nato in un ribollente maggio del ’55 in Argentina, a debita distanza dai flash e dagli occhi indiscreti della pubblica ottusità. Una ferita aperta nel cuore puro del campione che si sentì ancora più isolato e ingiustamente giudicato. Era un’anima in pena quando a Milano incontrò don Piero Cornelli, rettore della chiesa santuario di Santa Maria Podone, al quale confessò: «Come posso essere un esempio?». Il Vangelo questa volta gli fornì un’altra borraccia di acqua benedetta, venendogli in soccorso con la parabola del figliol prodigo. Un beverone più potente di quelli che gli preparava il suo massaggiatore, il cieco Biagio Cavanna, fece di nuovo spiegare le ali all’Airone. Ma fu un volo breve, triste e solitario, circondato da un amore che nel frattempo si era trasformato in diffidenza. Dagli attacchi del gruppo compatto che cercava di sgretolare il mito vivente del campionissimo, Fausto rispose con il silenzio e quel sorriso raro, che spesso non spuntava neppure dopo una grande scalata vincente sul Tourmalet. Il Coppi vero è il Coppi segreto (titolo omonimo del bel libro di Paolo Viberti, edizioni Sei) chiuso in se stesso al riparo di quei riflettori che non brillano della stessa luce calda che i suoi occhi amavano vedere, quella del manubrio lustrato e dei raggi delle ruote scintillanti al sole del Pordoi. La sua solitudine aveva reso sole anche le donne della sua vita, la madre, Bruna che poi sarebbe morta a 58 anni; Giulia, marchiata a fuoco come la donna dello scandalo, ma che per lui aveva lasciato al marito i due figli (pure Loretta è morta giovane) e a Novi Ligure, nel loro rifugio di Villa Carla, avrebbe cresciuto Faustino senza la figura di quel padre dal nome ingombrante al suo fianco. A settant’anni, nel 1993, anche la «Dama bianca» lasciò per sempre la scena. Fausto ora riposa lassù, sulla collina di Castellania sepolto accanto al fratello Serse, e di questa grande storia d’amore e di bicicletta resta solo «la fatica muta e bianca che non cambia mai». La fatica di un uomo che non aveva la faccia da campione, costretto a correre più veloce degli altri per staccare anche la sua ombra, di solitudine.
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