Un talento dello studio e della diplomazia, nonostante il suo carattere schivo. È il primo ministro del Papa, il suo braccio destro, il cardinale Pietro Parolin. Nello splendore del Palazzo Vaticano, si presenta con la semplicità del clergyman e della sua gentilezza, di un’umile disponibilità a raccontarsi. «Se pensate che interessi, che sia utile… Comincio dicendo che sono e vorrei rimanere fino all’ultimo un prete».Già da bambino, nella sua Schiavon, voleva diventare sacerdote, giocava a celebrare la Messa coi suoi fratelli, con gli amici. «Per me la scelta di diventare sacerdote è stata naturale, è nata in famiglia ed è maturata un po’ nella parrocchia e nel seminario. Fin da piccolo, non mi sono mai pensato in una vita diversa se non quella del prete… le ricordo un episodio: ero appena entrato in seminario, nel ’69, e sul nostro mensile,
Chiesa Viva, mi fecero scrivere un articolo sulle prime impressioni. Io scrissi che pensavo si pregasse di più e questo suscitò una forte reazione da parte del vescovo, che mi fece chiamare dal rettore, che mi disse: "Come puoi dire questo, che in seminario non si prega?". Misi un po’ di agitazione, diciamo…»
Aveva la vocazione del monaco! Non l’avrebbe immaginato di certo, di diventare Segretario di Stato. Ma sua mamma ha chiosato, alla sua nomina, che se l’avevano scelto è perché qualcosa di buono la saprà pur fare.«Lo credo anch’io, qualcosa di buono la so fare ed è tutto merito del Signore che mi ha dato dei talenti…».
La scelta del Papa non è neppure dovuta a una conoscenza particolare, a una lunga frequentazione…«Bergoglio l’avevo incontrato, ma sempre a livello di lavoro, mentre io ero sottosegretario della sezione per i Rapporti con gli Stati, forse un paio di volte avevamo trattato qualche questione riguardante l’Argentina, ma al di là di questo nessun contatto, forse mi conosceva un po’ di nome».
E invece arriva questo incarico delicatissimo, maturato in anni di servizio alla santa Sede in giro per il mondo. Ripercorriamo i luoghi e i tempi. La Nigeria: stravolta da una violenza disumana, giustificata da assurde motivazioni religiose. «Quando vedo oggi la Nigeria sento una grande sofferenza, perché la Nigeria è stato il primo Paese dove ho cominciato il mio servizio alla Santa Sede. È stata per me un’esperienza veramente coinvolgente da tutti i punti di vista, non solo quello strettamente diplomatico, ma anche missionario. Non mi sono mai pensato missionario. Credevo che avrei fatto il prete nella mia diocesi, magari parroco o con qualunque altro incarico nella curia. Ho sperimentato già allora tante tensioni tra cristiani e musulmani, tra nord e sud del Paese, ma non si era arrivati agli estremi che sono oggi sotto gli occhi di tutti».
Il Messico, dove ha dato il suo apporto al riconoscimento della Chiesa dopo anni di anticlericalismo radicale.«Non sono stato protagonista di quello storico evento, ero solo segretario della delegazione apostolica. Il merito va tutto all’allora delegato, monsignor Girolamo Prigione, che dal ’78 aveva cominciato a tessere quella tela, e la conclusione di tutta la vicenda coincise con gli anni in cui ero in Messico. L’ho accompagnato nell’ultima fase e sempre ho ringraziato il Signore di essere stato presente a quel grande avvenimento, che chiudeva anni di contrapposizione con la Chiesa».
Un Paese dove la testimonianza dei sacerdoti scatena la rabbia della criminalità, del narcotraffico, fino al martirio. «Sono tanti i martiri in America Latina perché, a partire dalla propria opzione per Gesù Cristo, i sacerdoti sanno sporcarsi le mani ed esporsi a difesa dei fedeli che sono loro affidati e per i grandi valori della giustizia e solidarietà. Esporsi significa anche mettersi nel pericolo e perdere la vita, come è avvenuto per il Signore».
Come è accaduto per Monsignor Romero, di cui la Chiesa riconosce la santità.«Ho sentito tanti che l’hanno conosciuto. La sua era una scelta di fede, non ideologica, e questo è un punto fondamentale anche nel panorama odierno. Certo è difficile parlare di martirio qui seduti in una bella sala. Ma è vero che il martirio fa parte della vita e della testimonianza della Chiesa. L’ha detto Gesù nel Vangelo: "Vi darò la forza per rispondere, per essere miei testimoni" e questa testimonianza può arrivare fino all’effusione del sangue. Io mi ricordo una risposta che hanno dato due suore francesi in Algeria ai tempi del terrorismo e delle uccisioni di cristiani, come i famosi monaci di Tibhirine. Quando è stato chiesto loro, "ma non avete paura di essere uccise?", hanno risposto: "Abbiamo paura, umanamente parlando, ma non di dare la nostra vita, perché la stiamo dando giorno dopo giorno". Questo è bellissimo. Il martirio è una grazia, solamente il Signore può darcela, ed è una grazia cui ci si prepara giorno dopo giorno facendo dono nelle circostanze ordinarie o straordinarie della nostra vita».
È un dono dello Spirito, il coraggio? Così si invoca a Pentecoste.«Bisogna lasciar divampare il fuoco dello Spirito perché i padri della Chiesa ci dicono che agisce nella misura in cui noi siamo aperti e disponibili alla sua azione. L’abbiamo ricevuto tutti lo Spirito Santo nella Cresima, nel Battesimo, nell’Eucaristia stessa. Però se non abbiamo questa apertura, questa disponibilità, lo Spirito può fare ben poco».
Guardiamo all’Oriente. Ha avuto tra le mani i dossier sul Vietnam, sulla Cina. La lettera di Benedetto ai cattolici cinesi, l’apertura dei cieli aerei per Papa Francesco. A quando i diritti e la libertà per i cattolici cinesi? «Non so rispondere a questa domanda, in un certo senso mi angoscia. Abbiamo constatato durante i secoli che non è mai stato facile, ci sono stati tentativi molto seri che non hanno portato risultati significativi, sostanziosi. Noi continuiamo a lavorare, ci mettiamo un po’ nella prospettiva che chiede a tutti il Signore, di fare la nostra parte, di farla con tanta generosità, senza nessun risparmio, sapendo che i tempi li conosce lui. Dicono in America Latina che i tempi di Dio sono perfetti. Forse non dobbiamo affrettare, nella speranza del giorno in cui possano essere risolti i problemi che abbiamo con questi Paesi, anche se ognuno ha le sue situazioni e le situazioni sono differenti. Aspettare che arrivino i tempi di Dio senza troppe impazienze, ma quanto mi addolora e mi dispiace la sofferenza di tante persone…».
A volte si chiedono gesti forti, voci più alte... «Risponderei con due citazioni. La prima è di San Paolo, il capitolo 13 della prima lettera ai Corinzi, "La carità è paziente". La seconda è di Santa Teresa, "
Nada te turbe, nada te espante: non devi essere intimorito o impaurito, di niente, solo Dio basta", solo Dio è sufficiente,
la paciencia todo lo alcanza: la pazienza raggiunge tutto, ottiene tutto. Non voglio dire che questa sia l’unica strada, ci vuole anche chi alza la voce… Certamente anche questo è parte della missione. Però io credo che ci siano ruoli diversi e non chiedete a me o non chiedete alla diplomazia quel che di per sé la diplomazia non è. Ciò non toglie… che altri possano adottare altre maniere, altri approcci, anzi ci vogliono. Non siamo noi gli unici che incarnano la missione della Chiesa, dove per grazia di Dio c’è una sinfonia ed è questa la sua bellezza: ci sono modi diversi di porsi, di fare servizio. Però a me sembra che la diplomazia abbia uno stile, una caratteristica particolare e noi la accettiamo perché crediamo sia utile alla missione della Chiesa. Non è solo uno strumento per tutelare la Chiesa o i suoi privilegi, come una volta si diceva, ma anche per diffondere il Regno di Dio. È importante tenere una porta aperta con tutti, anche se può costare a volte, rispetto a una testimonianza più diretta: ma è importante che noi non interrompiamo la conversazione con nessuno».
La Chiesa a volte è ascoltata pro forma o usata per sostenere le proprie posizioni ideologiche. Anche gli organismi internazionali mostrano scarsa volontà e potere di ricomporre i conflitti. «Ci sono dei pericoli, ma fatto un bilancio dei pro e dei contro mi sembra importante esserci e continuare a svolgere il nostro compito all’interno di questi organismi. Senza nasconderci le difficoltà, i rischi, le strumentalizzazioni. Ci vuole una presenza serena, ma non una presenza ingenua, e sappiamo bene quali sono le difficoltà. La firma di un accordo con lo stato di Palestina si colloca esattamente in questa ottica, di contribuire in maniera concreta alla realizzazione di un disegno che permetterebbe a due popoli di avere il proprio Stato, di vivere all’interno di ciascuno con confini sicuri e internazionalmente garantiti. Non dobbiamo mai scoraggiarci, ma continuare a fare. Non dobbiamo lasciarci prendere da un pessimismo eccessivo perché il pessimismo e la paura bloccano. Invece a noi è chiesto di continuare con determinazione ad andare avanti su questa strada».
Chi avrebbe immaginato che Obama si sedesse a un tavolo con Raul Castro, che lo stesso presidente cubano incontrasse il Papa in Vaticano… lei ci ha lavorato a lungo perché questo evento si compisse. «Sono sempre dell’idea che le situazioni maturano per una serie congiunta di cause. Evidentemente il clima stava cambiando, a partire dalla caduta dei muri. E anche Cuba si è venuta a trovare in un’altra situazione. Il Papa poi ha dato un impulso forte a questo cammino, a questo dialogo e credo gli sia stato riconosciuto sia dagli americani che dai cubani. C’è perfino l’ultimo incontro che quasi quasi ha provocato una conversione…».
Chissà se c’è da crederci, a quel suo "tornerò a pregare…". «Già a Panama aveva detto "con questo Papa tornerò a Messa", addirittura… Sono contento, che altro dire? Sono molto contento di questo sviluppo, di questa evoluzione. Credo che dobbiamo rallegrarci tutti!».
Anche i comunisti sono cambiati… ma c’è ancora il pericolo delle ideologie? E che contamini anche la Chiesa? «Il pericolo lo vedo dove non c’è una chiara visione della centralità della persona umana, della sua dignità, dei suoi diritti e dei suoi doveri... Quando sono altri gli interessi, gli scopi si rischia di imporre un’ideologia sulla realtà e di far soffrire le persone. E anche nella Chiesa c’è questo rischio. È una tentazione che si supera nel momento in cui si è consapevoli di quanto diceva Benedetto XVI nella
Deus caritas est, ripresa anche all’inizio dell’
Evangelii gaudium di Papa Francesco: all’inizio dell’esperienza cristiana non c’è una decisione etica, non c’è un’idea, ma un incontro, l’incontro con un avvenimento, con una persona. Se noi viviamo la nostra fede in questa dimensione c’è molto meno pericolo che le ideologie possano diventare prevalenti e fonte di conflitto all’interno della Chiesa».
Per lei questo incontro com’è avvenuto? «La cifra della mia vita è stata la normalità , non c’è stata nessuna via di Damasco. L’ho incontrato nel modo di vivere la fede dei miei genitori, nel modo di servire del mio parroco, nel mio vescovo, monsignor Arnoldo Onisto, in tante persone che hanno percorso tratti di strada con me e sono state per me un grande esempio».
Il suo motto episcopale è "Chi ci separerà dall’amore di Cristo?". E siamo noi a separarci da quell’amore. Però non riusciamo a vederlo sempre, soprattutto nel dolore. «A volte ha ragione, sperimentiamo qualche cosa di contrario, ma è colpa nostra… no, non direi neppure che è sempre colpa nostra: evidentemente c’è il mistero del male che agisce nel mondo e si contrappone all’amore di Dio. Vorrei anche risponderle con una frase di Madre Teresa. Di fronte a una persona che si diceva scandalizzata di tutto il male del mondo chiedendosi perché il Signore permettesse tutto questo e cosa facesse per evitarlo, le disse: "Il Signore risponde: Ho fatto te!" Cioè l’Amore di Dio si incarna attraverso di noi e per questo dobbiamo farci prossimi di ogni persona. Dobbiamo essere degli accumulatori dell’Amore di Dio attraverso una vita intensa di unione con lui, attraverso la preghiera, attraverso i sacramenti, attraverso la vita nella Chiesa. Vede, anche nel mio compito, nella diplomazia, si parla di grandi problemi, ma la mia preoccupazione è che anche questo diventi ideologia: che i poveri e le vittime diventino una categoria un po’ statica. Invece per essere efficaci nella nostra risposta, dobbiamo avere sempre presenti i volti dei fratelli e delle sorelle che soffrono. Per non elaborare sul dolore degli uomini dei bei sistemi… che in fin dei conti poi rischiano di metterci in pace la coscienza».
Lei pare immune per temperamento, storia e parole alla tentazione del potere. «Ma dobbiamo stare attenti, perché il pericolo c’è. Chiedo sempre al Signore che mi faccia restare coi piedi per terra e di poter incontrare persone amiche e oneste che mi dicano "Guarda che ti stai montando la testa". Spero che ci siano sempre».