Notizia di pochi giorni fa: l’aerosol per i bambini è molto spesso inutile, un mito da sfatare, una moda anni Settanta. Notizia di quattro secoli fa: l’acqua fa male, bisogna starne quanto più possibile lontani. Forse è eccessivo affermare che la medicina segua le mode, ma di sicuro è figlia del suo tempo e delle conoscenze scientifiche del momento, quindi fornisce talvolta prescrizioni in linea con il comune sentire di quella determinata epoca storica.
Con l’acqua è andata così: i bagni pubblici medievali, chiamati stufe, eredi dei bagni romani, erano misti e quindi non è detto che uomini e donne si limitassero alle abluzioni. Il combinato disposto dei fulmini dei predicatori e di nuove e mortifere malattie che non si sapeva come si diffondessero (peste nera 1348, sifilide 1494) ha fatto sì che a inizio Cinquecento, nel giro di pochi decenni, tutti i bagni pubblici venissero chiusi. Sono in tal modo cominciati alcuni secoli di sporcizia che, oltre a essere disgustosi, hanno diffuso una serie di malattie legate alla mancanza di igiene. Il massimo del minimo si è registrato nel Seicento quando, per l’appunto, i medici sconsigliavano l’uso dell’acqua. Siccome non si sapeva come ci si ammalasse, si riteneva che le malattie entrassero attraverso i pori della pelle dilatati. Quindi bisognava tenersi ben lontani da ciò che come l’acqua potesse dilatare i pori e, ancora meglio, mantenerli ben tappati di grasso e sporcizia.
In Francia, alla corte di Luigi XIV, il re Sole, si arriva ad avere talmente in odio l’acqua che i nobili non accettano di indossare panni lavati, appunto perché entrati in contatto con l’acqua. Si indossa la camicia una volta, e poi la si butta. Siccome si riteneva che l’igiene consistesse nell’ostentare una camicia immacolata, in quelle condizioni di sporcizia bisognava cambiarsela più volte al giorno, e solo chi era molto ricco poteva permetterselo. Sempre i ricchi si cospargevano di profumi o polveri (cipria) che avevano anche la funzione di allontanare almeno per un po’ le pulci e i pidocchi che prosperavano sui corpi mai lavati. Tutti gli altri, semplicemente, rimanevano sporchi. Nel Settecento si è cominciato a lavarsi un po’ di più, ma solo dopo l’avvento dell’igiene pubblica, nella seconda metà Ottocento, si è compreso il valore della pulizia personale.
Anche i pareri medici sull’alimentazione sono stati a lungo sottoposti alle credenze del tempo. I ricchi dovevano mangiare i cibi dei ricchi, i poveri quelli dei poveri, e trasgredire avrebbe potuto avere gravi conseguenze sulla salute. L’esempio più lampante è dato dal Bertoldo di Giulio Cesare Croce (siamo nel 1620), ovvero il furbo contadino che si fa re e che «morì con aspri duoli per non poter mangiare rape e fagioli», cioè per essersi nutrito con alimenti da aristocratici e non con quelli propri dei contadini. Chi stava in basso nella scala sociale doveva mangiare quel che la natura collocava in basso, addirittura sottoterra, come le rape; chi stava in alto ciò che stava in alto, ovvero i volatili. Un nobile del Cinquecento osserva: «Mangiamo più pernici e altre carni delicate e questo ci dà un’intelligenza e una sensibilità più elastiche di quelle di coloro che mangiano manzo e maiale». Naturalmente se un contadino avesse provato a mangiare pernici, ne sarebbe morto.
Lo stesso vale per il pane: quello bianco, raffinato, era riservato alle città, in campagna si mangiava pane nero; i signori di città dal canto loro non sarebbero riusciti a digerire una pesante pagnotta di avena (o di miglio, o di quel che era), mentre i contadini, per la ragione contraria, non avrebbero potuto nutrirsi di pane bianco, in quanto non erano abituati a quel cibo raffinato. Questa divisione sociale tra pane bianco e pane nero è rimasta ben viva fino ai giorni nostri nel nome dato ai cereali. Ancor oggi i vari cereali diversi dal frumento (sorgo, avena, miglio, panìco, orzo, farro, spelta) sono chiamati minori, o inferiori. Ma non perché abbiano un valore nutritivo inferiore al grano, bensì semplicemente in quanto un tempo utilizzati dalle classi sociali inferiori, minori. Pure Dante ne nomina uno, nel canto XIII dell’Inferno, dove spiega come le anime dei suicidi si trasformino in piante: «Cade in la selva e non è parte scelta/ ma là dove fortuna la balestra/ quivi germoglia come gran di spelta ». Un grano minore, quindi, certamente nell’ade non avrebbe potuto germogliare il nobile frumento. C’era sì qualche aristocratico che apprezzava il pane nero, ma le cronache ne riferiscono come di un originale, un personaggio bizzarro, un po’ come quel duca inglese che invece di godersi i privilegi di classe, insisteva a voler fare il muratore.