sabato 1 febbraio 2014
A colloquio con il grande chitarrista italiano che in un libro racconta il suo modo di fare musica. Fra ricordi di grande jazz e l’amarezza per tanto spettacolo di pura apparenza
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Ottantotto anni appena compiuti, una cin­quantina di album e centinaia di collabo­razioni, ora anche un bel libro (scritto con Pierluigi Sassetti per Arcana Jazz) intitola­to con ironia  Sarò Franco. Perché non c’è ombra di autocompiacimento o alterigia, nella gentilezza dolce ed elegante di Fran­co Cerri, il più grande chitarrista italiano, uno dei padri nobili del jazz nostrano e non solo, creatore di una lin­gua chitarristica personalissima, comunicativa, nitida. Ma Franco è tale di nome e di fatto se parla di musica, e­ducazione, no alla droga, del figlio e dell’Oltre: si scher­misce invece se gli si fanno i complimenti per il libro (da consigliare agli aspiranti artisti che tutto studiano tran­ne che etica), per le sue composizioni, per l’aver suona­to con Chet Baker, Django Reinhardt, Billie Holiday, Dizzy Gillespie, Barney Kessel, Gerry Mulligan. Provate, a fare a Cerri un complimento. Il massimo che vi concederà è un "Sì, ho fatto delle cose simpatiche". Ma forse è inevi­tabile: anche l’umiltà, del resto, fa parte delle doti dei grandi.Il suo libro parte citando Wittgenstein: alla gente non viene mai in mente che anche musicisti e poeti possa­no insegnare qualcosa. Lei cos’ha da insegnare?«No, mi sentirei un bullo se usassi quel verbo. Vede, ai ragazzi io parlo. Racconto come ho capito certe cose. Su­bito dopo la guerra suonavo nei cortili per far ballare, si stava tornando a vivere. Una sera venne Kramer e volle suonare con me: stavo per svenire… Quando lo rein­contrai non volevo farmi avanti, fu lui a chia­marmi: e i miei pensavano fosse un mio scherzo. Finché al Teatro Colosseo non mi videro in scena con lui, i Cetra, Natalino Otto… Sono un autodidatta fortunato, e non dimentico l’emozione di quando, già ragazzo, per la prima volta entrammo in una casa col gabinetto dentro, e non sul ballatoio».Però qualche responsabilità la sente, sul palco?«Il comportamento, certo. L’educazione. Vede, io ho an­cora paura, del palco. Proprio perché non basta salirci e suonare. Occorre rispettare chi c’è con te, ascoltare la gente, accontentarla, rispettarla. Dialogare. Per questo dal vivo eseguo poche cose mie, preferisco gli standard, Ellington, Kern, Mancini…».Oggi per chi fa musica è meglio o è peggio di quando lei ha iniziato?«Subito dopo la guerra ci furono opportunità immense. Dopo subentrò la politica: e i politici non hanno mai fat­to nulla perché la popolazione crescesse, nulla per avvi­cinare il popolo alle arti. Sa, ho anche pensato di trasfe­rirmi al Nord Europa, quando ho visto che peso diverso ha l’arte in certi Paesi».Lei nel libro dice che l’arte è profondità, lo spettacolo apparenza. Quindi non tutti i musicisti fanno arte, alcuni fanno solo spettacolo…«Arte è un’altra parola da dire con rispetto. Il tentativo di farla però ci deve essere. Senza prendersi troppo sul se­rio, semmai».Di grandi ne ha conosciuti tanti: i migliori?«Ricordo Jim Hall che ogni volta che veniva in Italia mi chiamava. O Barney Kessel a Torino, a disposizione de­gli studenti. E una notte in un locale, quando arrivaro­no Ray Brown e Oscar Peterson sul palco: io volevo al­zarmi, loro vollero continuassi a suonare con loro. I ve­ri grandi non sono presuntuosi».Però molti sono finiti male. Lei come ha resistito alla droga e alle tentazioni dell’ambiente?«Io sono felice di non aver mai neanche fumato. Una vol­ta a Modena Chet Baker disse ad altri colleghi "Franco non ha mai preso niente!", e tutti risero: inizialmente mi vergognai, poi ho pensato che in fondo la brutta figura la facevano loro, non io».Scrive che la musica aiuta a invecchiare. Perché? «Quando ami un’arte è una medicina ma­gnifica. Anche se non lo sap­piamo, per­ché non è nel­le scuole…». La musica la aiutò, quando morì suo figlio?«Sopravvivere a qual­cuno che hai tenuto in braccio è assurdo. Suonavamo anche insieme, con Stefano. La musica mi ha aiutato perché è anche lavoro, per me. E se non avessi avuto impegni da ri­spettare  non so in quanto tempo e come sa­rei riuscito a pensarci meno. Anche perché sen­za la musica sarei stato muratore, o fattorino… Ma la musica è un’altra cosa, decisiva».Ha avuto anche una fede che l’ha aiutata?«Ho fatto il chierichetto, ma soprattutto credo ci debba essere Qualcuno sopra di noi. Per for­za. Basta guardare la natura. E mi ha aiutato, sì: an­che se non mi sono mai rivolto a Lui per chiederGli qualcosa».Cosa pensa di sé Cerri a 88 anni, oltre 50 di musica?«Sono felice di suonare ancora, di camminare, di pen­sare, di comporre. Malgrado per suonare debba pren­dere antidolorifici per le mani. Forse mi manca solo di raccogliere tutte le mie composizioni».In quanto da lei scritto, dov’è il meglio?«Forse nel disco  Cerrimedioatutto.  E in  Moses Ballad, temino dedicato a un cane cui volevamo molto bene. Sì, forse sono le cose mie più simpatiche…».

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