mercoledì 9 febbraio 2022
«Sono mafie dei poveri, cresciute reclutando i troppi “figli di nessuno” creati dalla guerra e da un’esclusione atavica che affonda le sue radici nel turbolento Novecento salvadoregno»
L'antropologo Juan Martínez

L'antropologo Juan Martínez - D'Aubuisson

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La fine di una guerra non è necessariamente l’inizio della pace. Con la sua violenza e il fiume di profughi diretti incessantemente verso Nord, l’America centrale lo dimostra. I conflitti civili che hanno insanguinato El Salvador, Guatemala e, indirettamente, Honduras, sono terminati negli anni Novanta con gli accordi fra i regimi e le guerriglie. La pace, però, non è ancora cominciata. Al suo posto, c’è una guerra non dichiarata in cui le gang armate - le cosiddette 'maras' - si affrontano in un estenuante bagno di sangue. Uno scontro per il controllo del territorio, spartito in aree di influenza e governato dalle bande in base a leggi criminali di cui i civili sono ostaggio. Soprattutto i più poveri, che non hanno soldi per pagare auto blindate, sistemi d’allarme e vigilanti privati. Poveri, però, sono anche i killer che li minacciano, li torturano, li abusano, li assassinano. Dai romanzi ai film alle serie tv, tanti hanno raccontato questa tragedia spietata. Pochi, pochissimi, tuttavia, sono andati oltre l’estetica del macabro, l’esotismo dei rituali inquietanti, l’orgia di brutalità fatta di musica, tatuaggi, armi e slang. Del resto, non è semplice capire. A meno di ridurre la grande storia al «microscopico per comprenderne il globale». Ne sono convinti Juan e Óscar Martínez, antropologo il primo, giornalista di inchiesta il secondo. Entrambi sono tra i maggiori esperti in America Latina dell’universo 'maras'. El Niño de Hollywood. Una storia personale della gang più pericolosa al mondo, scritto a quattro mani, curato da Paolo Grassi e Andrea Freddi e pubblicato da Milieu (pagine 320, euro 17,90), lo conferma. Attraverso la vicenda di Miguel Ángel Tovar, alias El Niño de Hollywood, sicario della Mara Salvatrucha, i fratelli Martínez ricostruiscono «la lunga traiettoria di processi sanguinari che le hanno dato forma». «Abbiano narrato una storia enorme e poco compresa raccontata dalla vita di un signor nessuno, un dimen-ticato, uno dei tanti», dice Juan Martínez.

Perché tra i tanti avete scelto El Niño, spietato killer con alle spalle oltre 50 omicidi, traditore della sua stessa gang e da questa assassinato per vendetta?

L’esperienza di Miguel Ángel Tovar è la di- mostrazione perfetta di quanto fenomeni complessi ed eventi globali si incarnino nella vita di una persona e la influenzino, senza che quest’ultima ne sia al corrente. Grande e piccola storia si intrecciano. E comprendere la piccola fornisce la prospettiva per comprendere la grande.

Grazie all’esperienza di Miguel Ángel, bimbo povero e abusato trasformato in una macchina di morte, che idea vi siete fatti delle 'maras'? Che cosa sono queste bande nate nella periferia criminale e incluse ormai nella lista del dipartimento del Tesoro Usa? Sono gang di sbandati, organizzazioni criminali strutturate, mafie?

Mafie sì, ma dei poveri. Le bande centroamericane agglutinano gli esclusi. Emarginati che combattono contro altri esclusi senza altra ragione che l’annientamento reciproco. Questa è la differenza, per esempio, dei grandi cartelli messicani, che utilizzano la violenza - spesso efferata - in modo selettivo, per ottenere denaro o potere. Le maras no. O, meglio, non è il loro obiettivo principale. La violenza non è un mezzo, è un fine in sé. Esercitarla e non solo subirla, è il modo con cui si illudono di sfuggire alla marginalità.

Voi scrivete che le maras hanno a che vedere con la 'spazzatura'. Che cosa significa?

Sono il risultato dei 'rifiuti' buttati fuori dalla grande macchina degli Stati Uniti d’America. Rifiuti lanciati verso El Salvador, un Paese-tritacarne. Questi rifiuti umani, però, sono vivi dopo essere stati espulsi. Con il tempo, il loro prodotto torna in qualche modo a inceppare gli ingranaggi di quelle macchine che li hanno triturati e buttati. Fuori dalla metafora, le maras sono nate a Los Angeles. In origine erano gruppi amicali con i piccoli profughi della guerra civile salvadoregna, per altro finanziata da Washington, cercavano di proteggersi da altre gang diffuse negli Usa. La loro espulsione in massa una volta adulti verso l’America centrale, dove le istituzioni erano estremamente fragili all’indomani del conflitto, ha consentito loro di trasformarsi in organizzazioni criminali, sempre più violente. I cui tentacoli, ora, raggiungono gli stessi Stati Uniti. Le maras sono cresciute reclutando i tanti, troppi 'figli di nessuno' creati dalla guerra e da un’esclusione atavica che affonda le sue radici nel turbolento novecentesco salvadoregno, come Miguel Ángel.

Lei è antropologo. Invece di scrivere un saggio, però, ha scelto di cimentarsi col giornalismo narrativo. Influenza di suo fratello e co-autore Óscar?

Abbiamo scelto insieme la forma della 'cronaca', che precede il giornalismo. È il modo in cui raccontavano i primi europei sbarcati in America. Avevano il gusto del narrare e riuscivano a raccontare la realtà in un modo accessibile al pubblico. I lavori accademici in genere, invece, restano confinati nel gruppo ridotto degli specialisti. Anche noi antropologi, però, abbiamo un modo meno ingessato di scrivere, si chiama 'realismo etnografico'. Questo libro è un mix tra il realismo etnografico e il giornalismo narrativo.

Non è la prima volta che si occupa delle maras...

Le maras hanno segnato la mia generazione, come la guerra civile ha segnato quella dei miei genitori. Sono arrivate in America centrale nel 1993, quando ero un bambino. Tutti noi abbiamo dovuto farci in conti.

Lei ha intervistato El Niño per circa tre anni, da quando è diventato testimone di giustizia protetto fino alla sua uccisione per mano degli ex compagni. Che cosa le ha insegnato quest’esperienza?

Che non esistono vittime e carnefici in senso assoluto. Lo stesso essere umano può essere oggetto della violenza più brutale e poi diventarne l’artefice. L’ansia di distinguere tra 'buoni e cattivi', spesso, ci priva della possibilità di capire, che è il primo dovere di uno studioso. Ma anche di chi non vuole limitarsi alla retorica.

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