sabato 2 novembre 2019
Parla Marc Jeanson che a Parigi dirige il più grande erbario del mondo: «Il 90% degli esseri viventi è da scoprire, molti spariranno prima di poter dar loro un nome. L'umanità dipende dalle piante»
Il Jardin des Plantes di Parigi

Il Jardin des Plantes di Parigi

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Accanto all’immancabile album di fotografie, che ci aiuta a ricordare luoghi e volti cari, sarebbe bello che tutti avessero un erbario dove conservare fiori, foglie, piantine raccolte nei viaggi o anche vicino a casa: ricordi di momenti vissuti a contatto con la natura, che potrebbero diventare anche testimonianze di un passato irrecuperabile, perché ogni giorno si estinguono molte specie vegetali. La voglia irresistibile di farsi un erbario nasce spontanea leggendo Il botanista (Corbaccio. Pagine 220. Euro 16,00), avventuroso e brillante mémoire di Marc Jeanson, direttore dell’Herbier del Museo nazionale di Storia naturale di Parigi, il più grande erbario del mondo, che archivia dieci milioni di piante e ogni anno aggiunge circa 15.000 nuove specie. Scritto insieme alla giornalista e architetto di paesaggi Charlotte Fauve, il libro racconta oltre tre secoli di storia at- traverso le vicende dei più grandi botanici e naturalisti fino ad arrivare a lui stesso, portatore come i suoi predecessori di un carattere un po’ folle, perché la vocazione del botanico impone atteggiamenti contrastanti: da una parte lo studio attento e paziente di piante morte, pressate, sbriciolate tra antichi fogli ammassati in lunghe file di armadi polverosi, dall’altra la disponibilità alle più disagevoli trasferte, in foreste impervie e acque stagnanti abitate da animali pericolosi e insidiosi parassiti. Jeanson, oggi trentottenne, già da sei anni dirige l’Herbier, che si trova in un austero edificio parigino dietro il Jardin des Plantes, ma ha condotto ricerche in tutto il mondo per arrivare così giovane a una posizione di tale prestigio.

«Non voglio enfatizzare i miei meriti – dichiara con modestia – in realtà ci sono pochi botanici specialisti e non è difficile fare carriera. Ma non ho intenzione di riposarmi sugli allori: da novembre mi trasferirò in Marocco per dirigere l’Erbario dell’Università di Marrakech, pur mantenendo il legame con l’Erbario di Parigi, perché oggi, nel disastro ambientale che accelera la sparizione di migliaia di specie viventi, è fondamentale censire al più presto la biodiversità di ambienti ancora non studiati a fondo. Secondo stime attuali, il 90 % degli esseri viventi resta ancora da scoprire, e molti spariranno prima di poter dare loro un nome. Sostanzialmente è la tassonomia il compito dei botanici, dare cioè un nome alle piante e descriverle, in modo che poi altri scienziati possano studiare il loro valore in termini economici e terapeutici. L’umanità dipende totalmente dalle piante: per nutrirsi, per vestirsi, per curarsi, ed è la catalogazione ad avviarne la conoscenza. Un compito di grande responsabilità, perché la descrizione errata di una pianta può provocare una confusione letale tra specie simili».

Di solito i botanici partono dallo studio di un erbario e poi vanno a cercare 'in loco' la specie di loro interesse, per lei invece il percorso è stato inverso: la scelta della sua specializzazione è nata sul campo.

Un’estate, grazie a uno scambio, l’associazione umanitaria del liceo mi mandò in Senegal: ero incaricato di portare dei vecchi manuali scolastici. Fui folgorato dall’altezza e dalla bellezza delle palme, le cui 2.600 specie detengono la maggior parte dei record del mondo vegetale: seme più grosso, fusto più lungo, inflorescenza più ricca. Ma questo l’avrei appreso un po’ di tempo dopo, quando scelsi di specializzarmi nelle Arecacee, che avrei imparato a conoscere meglio della mia stessa famiglia. La raccolta di un campione di palma è quasi una barzelletta tra i botanici: come ridurla al formato standard delle tavole di un erbario, di 30 cm per 40? La mia scelta mi ha subito collocato nella categoria dei simpatici svitati.

Il mondo delle piante è in continua migrazione, soprattutto per opera dell’uomo: lei nota che non esiste nessun giardino europeo che non abbia piante esotiche, soprattutto orientali, diventate ormai comunissime.

Giardinieri e botanici, che hanno ruoli molto diversi, sono stati alleati nella migrazione delle specie vegetali: la fioritura dei giardini è il retaggio più vistoso delle spedizioni botaniche. Oggi però in Europa sono le specie locali più in pericolo di estinzione, per l’eccessiva urbanizzazione, dunque io proporrei, a chi coltiva un giardino, di piantare piante autoctone, per conservarle. Nel passato, il giardino era visto come hortus conclusus, che addomesticava la natura tenendone fuori il lato selvaggio, oggi succede il contrario, è il giardino un santuario di biodiversità, il rifugio del mondo naturale che allo stato selvaggio sta scomparendo a velocità vertiginosa.

Lei indica una triplice lettura delle piante: scientifica, storica, umana.

Sono tre approcci che s’intrecciano: il primo riguarda le caratteristiche della pianta secondo la sua classificazione, che dal XX secolo si è arricchita della conoscenza del Dna. Poi c’è lo studio degli erbari antichi, che certifica l’aspetto del territorio nei secoli passati, ed è l’unica testimonianza di un mondo vegetale scomparso. Il reperto più antico, nell’Erbario parigino, sono le ghirlande trovate sulla mummia del faraone Ramses II, che risalgono a più di 3.000 anni fa. E poi c’è il lato umano, con i racconti lasciati dai grandi botanici di tutti i tempi, ognuno di noi ha i suoi preferiti. Ci sono aneddoti gustosi: Linneo, per esempio, studiando la generosità della pianta del banano, che produce il suo dolce frutto senza alcun seme da spargere, e la forma delle sue foglie, si convinse che fosse quello l’albero dell’Eden, e lo chiamò “Musa paradisiaca”.

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