sabato 11 marzo 2017
Parla uno dei maggiori scrittori messicani contemporanei: viviamo in società consumiste, eppure cresce la richiesta di ascoltare la parola nella sua scintillante nudità
Marco Antonio Campos, scrittore messicano classe 1949

Marco Antonio Campos, scrittore messicano classe 1949

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Tre imponenti volumi pubblicati da Raffaelli raccontano Il fiore della poesia latinoamericana d’oggi (a cura di Emilio Coco, testo a fronte, pp. 1048, euro 69), con la velata pretesa di mettere a fuoco un fenomeno che, nel mondo plutocratico odierno, lascia davvero esterrefatti: la crescente domanda nei Paesi ispanici di ascoltare la parola nella sua scintillante nudità. Nessun’altra musica se non il verso. Da quelle parti i poeti sono come rockstar: e non il contrario. Uno dei maggiori autori antologizzati è Marco Antonio Campos, messicano, classe 1949, di cui Coco ha appena tradotto l’ultima silloge, Non per molto tempo (La Vita Felice, pp. 128, euro 14). Il pensiero di Campos si snoda tra presente e passato «como un remordimiento» e, alla fine, fuori dalle secche dell’estetismo dannunziano, nella piena coscienza del vero, l’intera vita «se puede convertir en un poema».

Quali sono i tratti distintivi della sua poesia?

«Se mi chiedessero di definire i miei testi, risponderei: la storia dell’anima. Fin da giovane mi sentii molto vicino a ciò che Ungaretti voleva fare della sua opera: 'Una bella biografia'. Questa era la mia aspirazione; mi domando se sia riuscito a renderla davvero bella. Ma, in fondo, è lo stesso: una poetica soggettiva, che parla dal cuore del poeta al cuore dei lettori. Ho cercato, come voleva Artaud, di non lasciar passare nei versi troppa letteratura. Volevo che le liriche conversassero con il passato che abbiamo vissuto. La mia poesia è stata, in primo luogo, una lunga cronaca di viaggio: geografica, letteraria, di incontri e di abbandoni amorosi, dell’andata e del ritorno di un’infanzia libera... Neruda raccomandava sì di partire, ma di ritornare sempre a casa. Ho iniziato scrivendo una poesia diretta, secca, a volte violenta, ovviamente influenzato da Eliot, Valéry e Gorostiza; ho cercato di comporre lunghi poemi simultaneisti che ho chiamato Monologhi e poi, a partire dalla silloge La cenere sulla fronte (1979), poesie calibrate secondo diversi punti di vista, più flessibili, musicali, che sono quelle nelle quali mi riconosco maggiormente. Le quattro direttive che ho seguito con costanza, sono state: poesie brevi e rigorose; poesie che introducono riflessioni su ciò che ho trascorso; il poème en prose nel quale mi sento a mio agio e, come ha detto un grande poeta messicano, Jaime Sabines, è il tipo di composizione che sembra avere più ritmo nel sangue; e infine poesie come spirali indirizzate al canto...».

Perché la tradizione poetica latinoamericana è contrassegnata da una «vocazione civile»?

«Non credo o, almeno, è un aspetto che sopravvive poco. Con un gioco di parole Borges si burlava della questione sostenendo che 'la poesia impegnata suona come un’equitazione protestante'. Neruda diceva, con esagerazione, che tutta la lirica passava attraverso le poesie civili; anche se ha lasciato testi mirabili, molte del- le sue peggiori poesie sono politiche. Un altro grande, il peruviano César Vallejo, ha scritto Poesie umane e Spagna, via da me questo calice, ma è talmente vibrante nel verso da lasciare profondamente commossi. Il nostro Ramón López Velarde ha composto nel 1921, centenario dell’indipendenza, al termine della rivoluzione messicana, La soave patria, che è un’ottima opera civile. Ritengo però, con García Márquez, che 'il dovere di ogni rivoluzionario sia quello di scrivere bene', ammesso che esistano ancora scrittori rivoluzionari. Purtroppo la parola 'rivoluzione', che incendiò tutto il XX secolo, ha perso molto del suo valore, ha esaurito la sua lucentezza. Coloro che sono sempre stati progressisti notano, anche in Occidente, una sinistra divisa o polverizzata. Pubblicai poesie politiche perché erano scaturite da un’emozione autentica, come in Italia, durante le due guerre mondiali, era stato per Ungaretti ne L’allegria, Quasimodo in Giorno dopo giorno e Sereni in Diario d’Algeria. Vengo con orgoglio dalla generazione del ’68: la più ribelle e combattiva e anche la più perseguitata e colpita».

Perché la poesia è così popolare in America Latina? Il potere della parola è legato alla sonorità del castigliano?

«L’italiano è sonoro come il castigliano. La differenza risiede nei milioni di persone che parlano l’una o l’altra lingua. Ma se si pubblica un libro di poesie, è molto difficile per un latinoamericano esaurire un’edizione di 500 o 1.000 copie. La poesia è più ascoltata che letta in America Latina. Ci sono migliaia di festival, sparsi anche in città piccole. Circola moltissima letteratura su Internet, ma in gran parte prevalgono i cattivi versi. Un elevato numero di poeti, la maggior parte giovani, ha fatto strada attraverso i social network, talvolta come gioco politico per partecipare alle rassegne e pubblicare in altri Paesi. D’accordo, è un loro diritto: ma sempre, in ogni generazione, sono pochissimi quelli che scalano la vetta».

Quali sono le difficoltà interne del Messico?

«Il crimine organizzato, l’insicurezza quotidiana, la corruzione endemica, la terribile disuguaglianza sociale, partiti politici senza alcuna credibilità, il discredito della classe dirigente, imprenditori con poca coscienza pubblica...».

E com’è vissuta l’ingerenza di Trump?

«Dico agli amici che nel ’68 abbiamo desiderato un Messico migliore e abbiamo creduto di potercela fare. Ora, quando la vita è ormai passata, è molto triste pensare che lascerò un Messico peggiore. Ci si trova sempre al di sotto dei sogni di gioventù. Non è solo un problema messicano, ma anche europeo. Tanti messicani ritenevano che l’arrivo della democrazia sarebbe stato la panacea; eppure, tutti i partiti risultarono ugualmente criminali come il Partito Rivoluzionario Istituzionale. Potere e crimine sono mescolati. Berlusconi era un problema nazionale; Trump è un problema globale. Ma la colpa è di chi lo ha eletto. Un politologo americano ha osservato lucidamente: non solo nazioni fallite, ma anche società fallite. Gli Stati Uniti sono una di queste. Molti si sentono mortificati dal trattamento umiliante che Trump riserva al governo messicano. Si tratta, invece, di una grande opportunità di diversificare i mercati e trovarsi economicamente il più lontano possibile dagli Usa. Spero che Trump apra molti fronti, soprattutto interni, subisca un impeachment e finisca l’incubo».

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