domenica 1 marzo 2009
Parla l'artista delle trasformazioni, dal 13 marzo a Milano con 22 persone per far rivivere la tradizione del grande Varietà: «Troppo assistenzialismo nei teatri pubblici. E in Italia troppi finti maghi che ingannano la gente: i gesuiti nel ’600 scrissero i primi trattati di magia per svelarli».
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«Il teatro italiano è attraver­sato da un terremoto, con spettacoli annullati ovun­que. Per fortuna il mio varietà un po’ vecchio stampo va benissimo e il tour, che doveva finire a gennaio, pro­segue ». Arturo Brachetti la crisi non sa cosa sia. A grande richiesta il suo Gran Varietà Brachetti prosegue la sua tournée a Milano, al Teatro Sme­raldo dal 13 marzo. Brachetti, lei non è più solo sul pal­co. In tempo di crisi, al posto di pun­tare solo su se stesso porta in scena ben 22 persone. Come mai? «Dopo nove anni di 'one man show' ero un po’ stufo, volevo tornare ad a­vere una mia compagnia, perché non potrò fare il trasformista per sempre. Voglio trovare un’alternativa per il fu­turo. Ciò non toglie che debutterò con un nuovo 'one man show' a Londra in autunno. In Gran Varietà Brachetti, dove sono attore, regista e autore del testo, scene e costumi, por­to in scena personaggi e numeri che stanno tra il musical, il teatro di va­rietà e l’illusionismo. Ballerini di tip tap, due forzuti, la trapezista, l’acro­bata, il mago pazzo. Insomma, por­to in scena un tipo di spettacolo che non esiste più». Un’operazione di recupero storico per le nuove generazioni? «C’è un vero vuoto generazionale. So­no rimasti i vecchi comici di varietà dai 60 anni in su e basta. Grazie al Cirque du Soleil stanno invece cre­scendo delle nuove generazioni di ventenni che si dedicano al 'nouveau cirque', bravissimi per acrobazia e altre discipline. Ma per la comicità siamo messi male. Negli anni 80 e 90 il varietà era decaduto, non c’è stato un ricambio. Ma il varietà fa parte della nostra cultu­ra come il circo, perché di­menticarlo?». Lei si sta dando all’inse­gnamento, anche attraver­so la collaborazione con l’Università di Torino e il Dams. «A Torino, che è la mia città, c’è una rinascita culturale incredibile. Ogni sera una cosa nuo­va, dai piccoli cabaret al teatro di stra­da alle scuole di teatro. Diciamolo: più la tv si abbassa di livello, più la gente a casa diventa stupida: per for­tuna il 50 per cento degli italiani per nutrire il cervello esce, va a vedere le mostre, va al cinema, a teatro». Eppure il teatro italiano lamenta la crisi. «Purtroppo abbiamo una mentalità assistenzialista tutta italiana. Io ho lavorato al National Theatre di Lon­dra: se un regista fa una cosa straor­dinaria, gli viene data un’altra possi­bilità, se fa due flop di seguito non la­vora più per quattro anni. In Italia tanti spettacoli brutti, solo perché so­no stati pagati dallo Stato, vengono portati in tournée per due anni. Il giu­sto sta nel mezzo: lo Stato aiuti la cul­tura, le realtà piccole e di qualità. I fi­nanziamenti a pioggia non fanno be­ne a nessuno. Ma la meritocrazia in Italia non c’è, il giudizio del popolo scompare dietro al clientelismo. Al­meno una volta i critici teatrali ave­vano il potere di selezionare: ora i giornali non fanno uscire le critiche, la gente non le ascolta. E allora chi giudica?». C’è però anche il costo dei biglietti che incide sulle tasche del pubblico. «Volendo a teatro si può andare an­che per 10 euro. Ma spesso i teatri pubblici hanno riempito le sale con gli studenti costringendoli a vedere delle pizze mostruose. C’è tutta una generazione di ragazzi che pensa: 'A teatro non mi fregano più'. Non puoi costringerli subito a quattro ore di Strindberg. Prima li devi portare a ve­dere lo spettacolo di bolle di sapone, poi De Filippo, poi Shakespeare. La mia fortuna è che molti genitori por­tano da me bambini e ragazzi, dai 5 ai 15 anni. Così avranno una prima idea allegra del teatro». Lei la prima idea di teatro l’ha avu­ta in seminario, vero? «Certo, i miei mi avevano messo in seminario dai salesiani a 11 anni, spe­rando di farmi diventare santo. Lì eb­bi la fortuna di essere allievo del Ma­go Sales. Mi ha insegnato ad uscire dalla mia timidezza attraverso i gio­chi di prestigio. A 18 anni decisi qua­le sarebbe stata la mia nuova vita. Ma la Chiesa ha avuto una grande im­portanza nel mondo della magia». In che senso? «I primi libri di illusionismo venne­ro scritti nel 1600 dai gesuiti, il primo addirittura da un italiano. La Chiesa voleva esporre i trucchi della magia bianca perché la gente si difendesse dai falsi miracoli. Quanti maghi truf­faldini c’erano allora, come ora pur­troppo. Ecco, quando vedo quei car­tomanti che promettono guarigioni impossibili con due candele e un cro­cefisso io mi arrabbio».
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