giovedì 15 settembre 2011
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Il Vecchio, il Duro e il Tedesco. Fosse un western all’italiana, il Novecento alpinistico del Belpaese potrebbe intitolarsi così, come anche «Le Dolomiti, il Bianco e  l’Himalaya» oppure «La roccia, il misto, le grandi spedizioni». In ogni caso non cambierebbero comunque i protagonisti del film: Riccardo Cassin, Walter Bonatti e Reinhold Messner, le tre leggende dell’arrampicata di casa nostra.Con qualche approssimazione di troppo, del resto, perché gli sconfinamenti dei tre grandi nell’uno e nell’altro genere della scalata furono cospicui, talché si può dire che il testimone è passato dall’uno all’altro come in una cordata ben assortita. E Bonatti – scomparso ieri a Roma a 81 anni, dopo una malattia di cui nessuno sapeva (la salma sarà trasportata a Lecco dove sabato e domenica sarà allestita la camera ardente) – di questa sorta di spedizione mai concretamente avvenuta è stato l’anello di mezzo: grandissimo sull’arco alpino come Cassin (il quale venne scartato dall’impresa del K2 per un’incredibile inabilità fisica...), come anche precursore – proprio grazie alla salita del 1954 ai comandi di Ardito Desio – delle imprese internazionali di Messner sugli ottomila.Ma – pur buon amico sia di Riccardo sia di Reinhold – il ragazzo delle pianure bergamasche che, operaio non ancora ventenne, raggiungeva ogni fine settimana in treno da Monza la palestra della Grigna, sopra Lecco, per arrampicare (e si capiva già che non si sarebbe certo fermato lì) non avrebbe tollerato di essere secondo a nessuno. Le sue imprese principali infatti, almeno dopo la precoce est del Grand Capucin salita con Luciano Ghigo nel 1950, le ha compiute in solitaria: ad esempio il pilastro del Petit Dru, (gruppo del Bianco) nel 1955, vinto dopo sei giorni di epica lotta, e la solitaria invernale della parete nord del Cervino, che nel 1965 ha chiuso precocemente la sua carriera nell’alpinismo estremo ed ha inaugurato invece il capitolo dei viaggi da esploratore e giornalista (celeberrimi negli anni Settanta i suoi reportage foto-naturalistici per "Epoca": Amazzonia, Oceania, Africa, Patagonia...).Grandi imprese, grandi tragedie. Si direbbe che la zazzera canuta e inquieta, che diede anzitempo a Bonatti un imprinting definitivo, attirasse le bufere: della montagna e della vita. Nel dicembre 1956 sulla Brenva, la sua cordata – unitasi a una francese – viene colta da una repentina tormenta che lo induce a scegliere di raggiungere la cima del Monte Bianco come via migliore di salvezza: una decisione che però poi gli verrà pesantemente contestata, perché i due colleghi d’oltralpe non ce la fanno e muoiono di freddo e sfinimento, dopo cinque giorni in attesa dei soccorsi. La vicenda sembra ripetersi nell’estate 1961, ancora sul Bianco e ancora coi francesi: Bonatti, insieme al fortissimo amico Andrea Oggioni, s’imbatte in una cordata transalpina sullo stesso percorso al pilone centrale del Freney; anche qui sopraggiunge una tempesta violentissima e lunghissima, dalla quale riescono a svincolarsi solo in tre, guidati dal  monzese; gli altri 4, tra cui Oggioni, muoiono assiderati e ancora una volta Bonatti dovrà subire una campagna di stampa accusatoria.E poi – anzi, prima – c’era stato il caso del K2, la spedizione nazionale guidata dal geologo Desio che nel 1954 condusse Achille Compagnoni e Lino Lacedelli in vetta al gigante del Karakorum. Ma i due non sarebbero riusciti nell’impresa se Bonatti, il più giovane del gruppo, insieme al portatore hunza Mahdi non avesse recato le bombole d’ossigeno all’ultimo campo a 8100 metri d’altezza, trascorrendo poi una notte all’addiaccio nella «zona della morte» a oltre 50 sottozero, in quanto i due alpinisti di punta avevano arbitrariamente spostato le tende più in alto del convenuto. Ne scaturirà una polemica lunghissima, generata anche dalle omissioni e dalle scorrettezze della relazione ufficiale (in cui si asseriva che il collega più giovane aveva consumato l’ossigeno per sé, così che Compagnoni e Lacedelli avevano dovuto raggiungere la cima senza respiratori): una tesi infamante contro cui Bonatti condusse una decennale battaglia, anche giudiziaria, a suon di testimonianze e di libri, fino a ottenere il definitivo riconoscimento delle sue ragioni nel 2004, in una relazione ufficiale di tre storici incaricati dal Cai.Tante ingiuste contestazioni tuttavia hanno inevitabilmente appesantito lo zaino del rocciatore che – disilluso sui miti dell’alpinismo «eroico» e «generoso» – ben presto ha scelto di appartarsi in un suo esilio montano in Valtellina, insieme con l’attrice Rossana Podestà divenuta sua compagna. Anche il carattere ne ha risentito, divenendo ancor più roccioso di quello che gli aveva permesso di superare bivacchi gelidi e ascensioni impossibili; poche le interviste, semmai libri sulle imprese compiute e le avventure vissute, volumi che - dopo il successo de Le mie montagne già nel 1961 – s’infittiscono dagli anni Ottanta in poi. Ma solo dopo il 2009 il «re delle Alpi» accetta di mostrare di nuovo il suo sorriso in televisione. «Quella notte sul K2 io dovevo morire», ha scritto Bonatti; il destino lo ha portato invece a morire a Roma, ben lontano dalle montagne. Che però un po’ "sue" rimarranno per sempre.
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