giovedì 25 maggio 2023
Apre la 18ª Biennale d’architettura, tutta all’insegna delle sfide (all’Occidente) del Continente Nero. Ma il format espositivo è superato: un clone di quella d’arte
Olalekan-Jeyfous

Olalekan-Jeyfous - photo Matteo de Mayda / courtesy La Biennale

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Change, cambiare. È il brand di questa 18ª Biennale di Venezia dedicata all’architettura, diretta dall’architetto scozzese con la cittadinanza ghanese Lesley Lokko. Il cambiamento è, dopo tutto, una delle qualità della presenza umana sulla terra. Del resto, anche il titolo della rassegna, The Laboratory of the Future (all'Arsenale e ai Giardini fino al 26 novembre) non è che sia così chiaro lì per lì, e nemmeno inedito. Possono essere tanti i laboratori del futuro: quelli di bioingegneria o di neurobiologia sono certamente luoghi dove si prepara il futuro. Potrebbe essere, altresì, un centro di studio per la colonizzazione spaziale oppure sulla materia oscura. Che cosa ci propone dunque l’architetto e scrittrice Lesley Lokko?

Per l’esposizione universale di Bruxelles del 1935 l’architetto belga Henry Lacoste, responsabile di vari padiglioni, progettò anche quello della sua nazione con una veste moderna, ma anche monumentale, e lo intitolò Panorama Atmosphérique, titolo non meno vago di quello dell’attuale mostra veneziana. Soprattutto quando si apprende il contenuto. Avrebbe dovuto accogliere la rappresentazione di un viaggio esplorativo nel Congo belga, per dimostrare la forza e il livello avanzato dell’impresa coloniale. Non venne mai costruito, ma ora, lungo gli spazi dell’Arsenale, Sammy Baloji, artista congolese e fotografo che lo scorso anno ha allestito a Palazzo Pitti una propria lettura critico-creativa della storia del Congo, presenta un modello in rame dell’edificio di Lacoste. Qual è il centro dell’opera? Sulla lunga facciata dell’edificio, Lacoste prevedeva di porre delle scritte a caratteri cubitali con le parole care all’impresa coloniale: rame, olio, legno, caffè, Congo… Baloji, quasi facendone il simbolo di tutte le colonizzazioni africane, gli contrappone: Avorio, Argento, Tungsteno, Litio, Cobalto, Cacao, Cultura, Palladio, Memoria, Storia, Platino…

Questa «interpretazione critica e poetica» è una visione abbastanza fedele all’idea che guida questa nuova Biennale d’architettura. Con quasi novanta artisti prende forma, in sostanza, una edizione “africana” della mostra, che si struttura su parole d’ordine ben precise e, d’altra parte, molto presenti nello spazio comunicativo planetario: terra, solidarietà, sostenibilità, resilienza, relazione... Vien da dire, intanto, che in una logica di riduzione dello spreco di risorse, molti padiglioni stranieri offrono il QR Code dove poter scaricare nel computer la cartella stampa, così si riduce il consumo di carta; la Biennale invece stampa, come sempre, due grossi volumi per complessive 600 pagine, dove, soprattutto il catalogo generale, non è altro che una circumnavigazione “letteraria” dei problemi che assediano il pianeta, le città, i territori: i testi sono stampati a caratteri enormi, ragion per cui sarebbe bastato ridurre il formato del volume di quasi la metà, risparmiando carta, senza comprometterne la funzione visiva e critica.

E qui veniamo alla prima considerazione che mi ha suggerito la visita alla mostra. Si può dire che questa Biennale confermi la fine di un modello bipartito della rassegna veneziana. Intanto, pur con tutti i suoi limiti e le sue forzature, questa edizione dedicata virtualmente, ma soltanto virtualmente, all’architettura, è in realtà una seconda edizione, un anno dopo, della Biennale d’arte, più ordinata e suggestiva di quella di Cecilia Alemani dove furoreggiava il genio artistico femminile. L’anno scorso le donne, quest’anno l’Africa: due soggetti che pagano sul piano della cultura benpensante di oggi.

I protagonisti dell’attuale rassegna operano nella maggior parte dei casi come creativi e molto meno nell’architettura. È una svolta che era maturata già nella biennale del 2008, l’11ª per l’architettura, che aveva per direttore l’architetto americano Aaron Betsky, il quale in sostanza pronunciava il de profundis per l’arte di costruire spazi e forme che durano. Anzi, sosteneva che quel de profundis erano gli edifici stessi una volta costruiti. D’altra parte, nella follia culturale che talvolta si manifesta nel nostro tempo, c’è stato anche chi ha sostenuto che in una biblioteca i libri meno si vedono e meglio è, perché i libri comunicano la fatica di leggere, il peso di imparare ciò che non si conosce. La vita deve essere libera, non troppo impegnativa, e soprattutto la simbiosi con la natura evoca modelli di contatto e relazione adamitici come se dovessimo riparare, risanare, ricreare quello che fu un paradiso terrestre. Fatte queste considerazioni mi sono dunque convinto che ormai la Biennale andrebbe riunificata in una sola edizione a due polmoni: arte e architettura.

È ciò che sembra suggerire lo stato delle cose, nel momento in cui due edizioni a un anno di distanza fra loro, riproducono un pensiero unico, anche se articolato in tante sottocategorie: quello delle biennali artistico-creative-comunicative. L’architettura, quella costruita, è insomma un demone da esorcizzare, perché è ormai soltanto regno del capitalismo, del tecnicismo, della speculazione, dello sfruttamento delle risorse, quando non si riduce, come in molti progetti delle archistar, a un diffuso, maramaldesco gioco per assecondare il narcisismo dei poteri commerciali ed economici, a danno delle collettività e dei cittadini, attraverso il real estate che favorisce corruzione, malgoverno, povertà, classismo, svuota le culture e la memoria su cui si fondano, ruba la storia dei popoli: Wole Soyinka, il premio Nobel nigeriano, in un saggio breve ma severissimo si dichiarò contrario alla soluzione voluta dall’arcivescovo Desmond Tutu alla fine della colonizzazione sudafricana, perché riteneva che tirare un colpo di spugna sulle colpe e i delitti dei bianchi fosse non soltanto ingiusto verso le vittime, ma soprattutto verso la loro storia e cultura. Chi restituirà, chiedeva, a quei popoli colonizzati quei “beni” di cui il colonialismo li ha privati per decenni o secoli? Una questione che corre come un fil rouge lungo tutto l’Arsenale e in parte anche nel Padiglione centrale dei Giardini.

Dunque alla Biennale va di scena l’Africa; la rappresentano per lo più installazioni artistiche che alludono a questioni aperte anche in Occidente, soprattutto per le responsabilità dello stesso Occidente nell’aver imposto a culture un tempo “altre” i propri modelli che potremmo ricondurre all’idea di “consumo”: di risorse, di memorie, di idee e di modelli economici, di modi di vivere. Ora è l’Africa che dice: siamo noi i precursori delle forme di architettura sostenibile oggi necessarie anche a voi. Per Lokko il modello è il nigeriano Demas Nwoko, premiato col Leone d’oro alla carriera, che un critico paragonò a Gaudí per come ha saputo coniugare l’architettura con la scultura e le altre arti. Si può parlare di sintesi fra modernità ed estetica africana? È forse azzardato, salvo che non si voglia innestare il nuovo corso in una storia che comincia molti secoli addietro, ma in questo caso diventerebbe difficile anche parlare di postcoloniale. Però, un anno fa, Nwoko ha scritto: «Se avessimo tenuto fede a come operavano i nostri antenati, avremmo raggiunto un certo livello con una gestione ragionevole delle risorse naturali da cui anche il mondo occidentale avrebbe potuto imparare».

Trattandosi del pensiero di un vecchio saggio che ha seguito con coerenza il proprio ideale di architettura radicato nella storia e nella memoria degli africani, un’affermazione del genere fa pensare che questa Biennale dove il futuro è, senza indugi, africano, voglia essere una sorta di feedback storico dove saranno i colonizzati a ricolonizzare i colonizzatori portando loro la forza di una cultura che nasce, come scrive nel catalogo Tosin Oshinowo, dalla scarsità: se era una condizione preindustriale ora è la base dell’esistenza. Dalla scarsità è nata anche l’innovazione. La scarsità come spinta a uscire dai modelli occidentali. Ma lo sappiamo anche noi che il nuovo nasce e si sviluppa quasi sempre nei periodi di crisi, quando la necessità aguzza l’ingegno e magari si riparte dalla sapienza più radicata. Certo, è un po’ difficile fare affidamento su tesi come questa: «Non è l’Africa che si sta mettendo al passo con il modernismo, è il modernismo che si sta mettendo al passo con l’Africa».

Resilienza come approccio alternativo? Naturalmente, parlare di “laboratorio del futuro” è legittimo, di fronte alla congestione e alla bassa qualità della vita di tante metropoli. Sembra di assistere a un nuovo flusso dove gli antichi principi di antropizzazione dello spazio, tipici della memoria culturale africana, dovrebbero relegare in secondo piano l’architettura con la “a” maiuscola, quella degli archistar. Come scrive Kukuwa Mangue, imparare dall’Africa «miniera di modi per immaginare altrimenti», secondo una “epistemologia fluida” che crea l’osmosi tra confini disciplinari. In definitiva, molta autarchia: non costruzione di spazi ma di relazioni, la rete come architettura e il modello “Carnival” che ridà all’uomo una possibilità creativa che libera. Viene in mente la celebre riflessione di Heidegger secondo cui nell’architettura abitare viene prima di costruire.

Non c’è dubbio che l’Africa sia un futuro possibile. Tuttavia perché in questa Biennale non c’è un’analisi accurata del ruolo che le grandi potenze stanno giocando nel continente, la terra che hanno conquistato a suon di miliardi di yen, di dollari o di euro? oppure, delle colpe delle dittature e delle guerre che insanguinano l’Africa del Nord? se molti africani fuggono da questo, in che modo l’Africa si candida a essere futuro? La maieutica africana che emerge da questa Biennale non sarà l’ennesimo esempio di colonizzazione camuffata? Lokko, per esempio, ringrazia Rolex, il presidente della Ford Foudation, Bloomberg Philanthropies per il “generoso sostegno”

Ma guardandosi attorno, nei padiglioni stranieri, gli stimoli maggiori vengono da chi presenta non idee ma progetti che impattano sull’ambiente: il Regno del Bahrain che elabora modelli naturali per il raffreddamento di un’area già surriscaldata, la Cina con una quarantina di interventi architettonici per migliorare la qualità della vita degli ambienti ad alta densità, l’Uzbekistan che racconta il rapporto fra territorio e ricerche archeologiche per scavare nel proprio passato architettonico attraverso la collaborazione con 25 studenti: l’emblema sono le rovine della Corasmia riemerse da una celebre missione archeologica condotta per decenni da Sergej P. Tolstov nel territorio uzbeko, kazako e turkmeno, coinvolgendo etnografi, archeologi, geografi, esperti di geologia, pedologi.

A fronte di queste ricerche deludono i padiglioni di paesi in prima linea nell’architettura moderna come Francia, Germania, Gran Bretagna, Giappone. Infine, l’Ucraina, che non ha un padiglione ma ha costruito, di fianco al padiglione del libro opera di Stirling, un’ampia superficie con cumuli di terra che richiamano i kurgan indoeuropei oppure una fortezza per difendersi da aggressioni esterne come quella attuale. E magari saranno il perimetro di un prossimo padiglione da costruire. Resta tuttavia da segnalare la malinconica vuotezza del padiglione russo, come già nella scorsa Biennale d’arte, laddove invece un confronto su una terra franca come quella veneziana avrebbe sul piano simbolico contribuito alla causa della pace.

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