domenica 15 agosto 2010
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«Tatàm, tatàm, tatatatàm…». Nella notte fonda il martelletto picchia, rimbalza sul legno della simandra. È così, dice la tradizione, che Noè convocò gli animali nell’arca. È così, prescrive la regola, che i frati sono chiamati a riunirsi in chiesa. Con le prime luci dell’alba si leveranno gli inni di celebrazione. Ma ora a rompere l’oscurità sono solo lo sciabordio delle onde e la ronda silenziosa dei monaci che prende a prestito dagli angeli la loro geometria sacra. I padri, a capo coperto, mantello svolazzante e rosario in mano, vengono a inchinarsi davanti alle icone, che l’oscillare delle lampade a olio sembra animare. Volute d’incenso, aeree salmodie. Alla clessidra mistica del deserto sono le otto, le tre all’orologio meccanico del mondo. Ovunque, altrove, si dorme. L’Athos veglia e prega che, alla fine, sorga nell’uomo il sole che non tramonta. Il mondo l’ho abbandonato dietro di me, lasciando Uranopoli, la "città del cielo", il posto di frontiera dove malinconicamente va a finire la Grecia moderna. Davanti riempie l’orizzonte il blu insondabile, cobalto del mare o azzurro del cielo. Più lontano il profilo di un’isola, o quasi, Aghion Oros, la "Santa Montagna". L’ultima repubblica monastica occupa una penisola della Calcidica, sulla strada fra Salonicco e Istanbul. L’Egeo le fa da baluardo. Si arriva solo dal mare, muniti di un lasciapassare dal nome bizantino, timbrato con sigilli medievali. E sfilano rapidi, in dolce litania, Dochiariou, Xenophontos, San Panteleimon, i primi grandi monasteri sulla costa, ieratici. Nell’attesa di Dafni, con il suo vortice caotico di tonache, clacson e bagagli. L’Athos è una terra di contraddizioni. Un Oriente, ma confitto nel cuore dell’Europa. Una teocrazia, ma che fiuta l’anarchia. Un luogo di santificazione, dove la santità si nasconde. Mille anni dopo la sua fondazione, il "giardino della Madre di Dio" resta vietato alle donne. E i pellegrini che sognano miracoli ripartono ingozzati di lokum da appartati asceti. Perché le vere frontiere dell’Athos sono immateriali. Si chiamano umiltà, follia. E poi dogma, ortodossia. L’ospitalità del cuore qui è pari solo all’intransigenza della fede. Dove andare? A nord, a Chilandari il serbo, devastato dalle fiamme come le chiese del Kosovo? Al centro, a Zografou il bulgaro, quasi addormentato nel cuore della foresta? A est, a Stavronikita, in riva al mare, dove si trova l’icona di san Nicola dalla conchiglia, arenatasi sulla sabbia? A ovest, allo skita di Sant’Anna, più imponente e turbolento di certi conventi? A sud, alla Grande Laura, come una magnifica città, dove tutto è cominciato? O a Karulia, a picco delle falesie che danno riparo ad anonimi reclusi? Ci sono tanti Athos quanti atoniti, oggi quasi duemila, ma il pellegrinaggio si compie solo nell’incontro. Salto su un caicco, destinazione gli skita e gli eremi del sud, rifugio di cantori e di iconografi. Vertiginosa contemplazione.Visti dal basso, dal sentiero lastricato che faticosamente serpeggia attraverso bosco ceduo e arbusti, quei rifugi sembrano spuntare dalla roccia, sfuggire alla pesantezza, giocare ai venti per partire all’assalto del cielo, come fari spirituali. Calore. Sudore. Poi, all’ombra dei muri, il rito del caffè, alla turca e corretto col raki. Più che conservarli, l’ascesi trasfigura gli atoniti. Li rende somiglianti a quelle immagini senza tempo degli apostoli, dei martiri, dei padri del deserto che ornano gli affreschi, e che sono chiamate a ripetersi di generazione in generazione. Gli skita sono gruppi di una dozzina di monaci riuniti attorno a un maestro detto "l’Anziano", gerondas in greco, starec in russo. Adempiendo l’obbligo di un lavoro rigoroso per temperare i fervori contemplativi, alcuni monaci hanno scelto l’arte sacra, specialmente l’icona e il canto. Stupefacente spettacolo di alleanza tra rigore e bellezza, ascesi e sontuosità. L’Athos, testamento vivente della spiritualità ortodossa, fa parte dell’eredità di Bisanzio, dei suoi tesori e dei suoi splendori. Iscritto nel Patrimonio dell’Umanità, museo che conserva oltre cinquantamila icone rare e dodicimila manoscritti antichi, la Santa Montagna, scuola di preghiera, vuole essere anche una scuola di estetica sacra. Assieme all’icona, teologia a colori, è tutta la civiltà del cristianesimo orientale a materializzarsi. Per Costantinopoli, seconda Roma, l’arte è stata una catechesi di bellezza inscindibile dal sogno politico di una società santificata. La cultura scaturisce dal culto e la città, anche quella monastica, dal tempio. Immagine del cosmo restaurato, anticipo del paradiso, essa è il luogo dove l’umanità si rende permeabile alla luce della divinità. Il mondo, in essa, è trasfigurato. La pittura sacra riassume le gesta della salvezza, il passaggio dalla creazione alla redenzione, dalla caduta alla grazia. Ma lo stesso vale per il canto, monodico, condotto all’unisono, detto "asmatico", legato al soffio, altro nome dello Spirito Santo, il Paraclito che libera. La tradizione, che vuol dire trasmissione, si apprende dunque nella sottomissione alle forme ereditate dove, ciascuno, in un percorso a ritroso dall’individuo atomizzato, si scopre persona in comunione, dotata di un autentico nome proprio, non cedibile. «Da’ il tuo sangue per ricevere l’Eterno». Guardo questi giovani monaci intenti ai tratteggi e alle pennellate, ai segni musicali. Come Maria, la sorella di Marta, hanno la parte migliore, quella contemplativa. Non li invidio, mi rallegro della loro esistenza. Imperturbabili, i padri dell’Athos continuano a prepararsi alla fine del mondo. Cantano e dipingono nella forma della parusia. Quella del Regno di Dio, sempre da venire, e tuttavia fin d’ora presente.
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