giovedì 14 ottobre 2010
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Non è possibile qui ricostruire il ruolo del Vaticano negli anni di piombo. Anche in questo caso mancano fonti e studi attendibili. Ma l’appello che Aldo Moro, rapito il 16 marzo 1978, rivolse a Paolo VI suggerisce la centralità della Santa Sede nel dramma che il Paese stava vivendo: «Solo la Santità Vostra può porre di fronte alle esigenze dello Stato, comprensibili nel loro ordine, le ragioni morali e il diritto alla vita». Sebbene fosse vecchio e malato, il Papa, indebolito dalla contestazione interna alla Chiesa sempre attiva a partire dalla pubblicazione nel luglio del 1968 dell’enciclica Humanae vitae, volle assumere il ruolo di Defensor civitatis. Diviso tra l’affetto per l’amico Aldo Moro, la preoccupazione per il destino dell’Italia e il desiderio di proteggere i valori che andavano oltre la persona dell’uomo di Stato, il 21 aprile indirizzò una lettera ai rapitori che non nascondeva le sue proprie lacerazioni. Due giorni prima, il 19 aprile, Lotta continua aveva pubblicato un appello in cui domandava al governo di fare il necessario per ottenere la liberazione di Moro, quindi cedere alle richieste dei terroristi, ciò che tanto la Dc quanto il Pci rifiutavano. Tra i firmatari c’erano numerose personalità cattoliche: dei vescovi, tra cui due vescovi ausiliari di Roma, e monsignor Mariano Magrassi di Bari, dei teologi, e soprattutto Mario Agnes, presidente dell’Ac (questo poteva far pensare che l’iniziativa fosse appoggiata dalla segreteria di Stato). In compenso si è discusso parecchio su un’espressione utilizzata dal Pontefice: «Senza condizioni». Monsignor Luigi Bettazzi, vescovo d’Ivrea e direttore di Pax Christi, monsignor Alberto Ablondi, vescovo di Livorno, e monsignor Clemente Riva, vescovo ausiliare della capitale, si erano offerti di essere presi al posto del presidente democristiano. Ma il Vaticano si sarebbe opposto a tale proposta. L’opinione pubblica fu colpita dall’impegno umile e intenso profuso dal Pontefice, proprio nel momento in cui la classe politica stava perdendo credibilità. La morte di Moro fu un trauma per Paolo VI, che si spense poco dopo. Il cardinal Poletti, suo vicario a Roma, notò nelle sue Memorie: «Quell’assassinio pesava sulla sua anima più che sul suo corpo come un macigno». Mentre nessun politico osava girare senza scorta, lui attraversò la città su una macchina scoperta. Come Pio XII, che nel giugno del 1943 si era recato nel quartiere di San Lorenzo distrutto dalle bombe, Paolo VI incarnava la nazione ferita. Lo storico Piero Craveri ha scritto: «La Repubblica era scomparsa, senza più immagine e parola, e il suo posto era interamente occupato dal rito solenne della Chiesa di Roma». A quel punto la Chiesa s’impegnò in un ruolo assai importante con due aspetti principali: l’azione sociale e la riconciliazione. In primo luogo molti ecclesiastici furono vicini alle vittime e alle loro famiglie. Il 19 marzo 1980, dopo essere venuto a conoscenza dell’uccisione del magistrato Guido Galli all’università, il cardinal Martini, arcivescovo di Milano, andò a pregare sul suo corpo. Volle poi celebrare personalmente i funerali di Walter Tobagi.Questo tipo di «presenza» è un aspetto difficile da ricostruire, e lo si può fare solo ricorrendo alle numerose testimonianze, ma sappiamo bene quale sia il suo peso concreto presso le famiglie e, al di là, l’opinione pubblica. Si osserva una simile preoccupazione di prossimità nei confronti dei terroristi: lo stesso cardinal Martini non esitò a battezzare i gemelli di una coppia brigatista. Alcuni vescovi furono perciò un punto di riferimento per tutti, come nel periodo dell’occupazione nazista, dal 1943 al 1945. Il 21 giugno 1984 il gruppo milanese di Prima linea restituì armi all’arcivescovado di Milano. Per uno dei responsabili, Sergio Segio, ciò significava riconoscere a «questa Chiesa un ruolo esemplare per comprensione e disponibilità». L’attività dei cappellani nelle carceri fu fondamentale per facilitare il reinserimento e la riconciliazione. Era impossibile ricucire il tessuto sociale senza passare per la prova difficile della riconciliazione. Se il discorso sul perdono non sempre è stato accolto positivamente dalle famiglie colpite, la Chiesa non ha esitato a metterne in luce l’importanza. Il convegno della Chiesa d’Italia del 1985 a Loreto, svoltosi in presenza di papa Giovanni Paolo II, fu dedicato proprio al tema della «Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini» nel contesto dell’uscita dagli anni bui. A questo coro si aggiunsero le voci importanti di alcuni parenti delle vittime. Per esempio, Eleonora Moro, che durante la messa celebrata 8 giorni dopo il ritrovamento del cadavere del marito, lesse una preghiera: «Per i mandanti, per gli esecutori e i fiancheggiatori di questo orribile delitto, preghiamo. Per quelli che per gelosia, per viltà, per paura o per stupidità hanno ratificato la condanna a morte di un innocente, preghiamo. Per me e per i miei figli, perché il senso di disperazione e di rabbia che proviamo ora si tramuti in lacrime di perdono, preghiamo». Ai funerali del padre, il 14 febbraio 1980, Giovanni Bachelet si espresse in modo più sereno: «Preghiamo per il nostro presidente Sandro Pertini, per Francesco Cossiga, per i nostri governanti, per tutti i giudici, per tutti i poliziotti, i carabinieri, gli agenti di custodia, per quanti oggi nelle diverse responsabilità nella società, nel Parlamento, nelle strade continuano in prima fila la battaglia per la democrazia con coraggio e amore. Vogliamo pregare anche per quelli che hanno colpito il mio papà perché, senza nulla togliere alla giustizia che deve trionfare, sulle nostre bocche ci sia sempre il perdono e mai la vendetta, sempre la vita e mai la richiesta della morte degli altri».A volte l’esempio edificante di certe vittime facilitò il pentimento dei carnefici. Si pensi a Giuseppe Taliercio, direttore del Petrolchimico di Porto Marghera, cresciuto nell’Ac. Fu sequestrato, torturato e assassinato nel 1981. Ma assolse i suoi boia. Le lettere indirizzate a Gabriella, la vedova, mostrano quanto ciò sconvolse i torturatori. Una di loro scrisse: «Il suo perdono mi porta a pensare in un possibile riscatto di me stessa». Nessun dubbio: sono state queste parole, l’azione dei cappellani e dei vescovi a preparare l’incontro di riconciliazione organizzato dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano il 9 maggio 2009 al Quirinale. Il cattolicesimo italiano fu colpito duramente dal terrorismo, in particolare di estrema sinistra, e ancora oggi ne è traumatizzato. Da una parte, alcuni giovani che si erano formati proprio nell’ambiente cattolico scelsero la violenza, sollevando dubbi sull’educazione e la formazione che avevano ricevuto. Dall’altra, il tributo pagato in termini di morti, di feriti e di famiglie distrutte fu alto anche se non è stimato con precisione. Le conseguenze furono rilevanti: indebolimento del partito dei cattolici, blocco del rinnovamento politico di cui il Paese aveva bisogno e, paradossalmente, invece, rafforzamento dell’influenza della Chiesa sulla società. La religione rappresentò, un po’ come nel 1944 e nel 1945, una risorsa e un’ancora di salvataggio: seppe incoraggiare nuove forme d’impegno che non mascheravano la sfiducia delle giovani generazioni cattoliche verso lo Stato e la politica.
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