venerdì 25 settembre 2015
​​Al museo di Amsterdam che raccoglie le opere del maestro olandese un confronto con le opere del pittore norvegese. Una riflessione aperta sull'età dell'ansia.
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Se è vero – come scrivono i tre curatori scientifici della mostra  face- to-face di Munch e Van Gogh – che due rette parallele all’infinito convergono, tuttavia in questo caso si tratta di capire in quale infinito s’incontrano. E se la vita di un artista può essere considerata una retta che corre accanto ad altre (spesso sono, invece, traiettorie discontinue), ecco che quando si cercano dei “parallelismi” è facile poi che si finisca per trovare fra quegli stessi artisti una convergenza che, a un primo sguardo, non era così evidente. Ma se si parla di Munch e Van Gogh, il discorso si complica molto. Perché questi due artisti hanno trascorso gran parte della loro vita in uno stato di “instabilità” interiore che era di natura psichica, ma anche spirituale. Uno cerca di cambiare il sangue in oro, il colore in luce purissima, tanto pura da rendere al mondo una via di trasfigurazione nella materia stessa, una forma di risurrezione terrena (ma c’è quell’ultimo volo, sul campo di grano, dove gracchiano i corvi e il cielo è carico di presagi cupi); l’altro vive la notte bianca perenne, la veglia che porta all’allucinazione e cambia ogni cosa osservandola con una lente che tutto deforma e tutto riporta allo stato gassoso e fluido: la notte dell’origine, dove l’ultrasuono incide lo sguardo, come nel celebre Urlo, che è diventato ormai l’emblema dell’angoscia moderna. Pare che la domanda che alcuni visitatori pongono entrando al Museo Van Gogh sia: «Dov’è esposto l’Urlo?». Non so se si possa dire, come in effetti sta scritto nel comunicato stampa della mostra che si è aperta due giorni fa ad Amsterdam nel museo dedicato al grande olandese morto nel 1890, che una domanda del genere non deve stupire più di tanto perché da sempre i due artisti vengono accostati e quasi sovrapposti nell’immaginario comune. E in effetti, recandomi ad Amsterdam, mi ponevo anch’io una domanda: perché ero attratto da questo confronto come, appunto, se fosse naturale pensare i due pittori uno di fianco all’altro, o addirittura vederli in un ologramma dove l’uno prende certe fattezze dell’altro e viceversa. Già, perché? Gli stessi curatori – Maite van Dijk e Leo Jansen, specialisti diVan Gogh, e Magne Bruteig di Munch – nel catalogo si premurano di mettere le mani avanti: pur emergendo sulla scena più o meno nello stesso periodo, cioè attorno al 1880, non s’incontrarono mai; Van Gogh quasi certamente non vide le opere di Munch (che soggiornò per un po’ a Parigi a partire dal 1885), mentre è quasi certo che sia avvenuto il contrario, se non altro perché il norvegese visse 54 anni più dell’olandese, essendo morto nel 1944, ottantunenne. Anche il loro linguaggio è radicalmente diverso: Van Gogh fa lievitare la luce assieme alla materia, la sua ossessione è mistica e agreste, legata a un senso della terra come madre comune dell’umanità. Anche i Mangiatori di patate, impastati di toni marcescenti, verdastri e cupi, non è un quadro “triste”, è una rappresentazione del mondo contadino del tempo, con un realismo assolutamente distante da preoccupazioni sociali, perché in questo mondo uomini e animali sono parenti stretti, compagni di vita e di fatica. L’umanità diVan Gogh è nel fermento stesso della materia pittorica, è una pulsazione plastica, una visione tattile, realistica non in quanto mimetica, ma perché vive nella sensazione dell’artista stesso che cerca di rendere allo spettatore la singolare sinestesia di occhio e tatto, di corpo e sguardo.  Ma qui il discorso prende una piega pericolosa, perché è chiaro che in Van Gogh la schizofrenia gioca un ruolo attivo. È una delle grandi questioni dell’arte contemporanea, che oggi non trova più un pubblico capace di capirne il senso, o che si vende come arte mentre è tutt’altra cosa. Van Gogh non fu certo un uomo “equilibrato”; la sua disposizione a tormentarsi, le sue esaltazioni, spesso illuminante dalle sue stesse lettere, la lucidità analitica che dimostra invece quando affronta questioni artistiche nel dialogo col fratello Theo e con altri artisti, infine il suo suicidio o quello che fu, autolesionismo da amante ferito nel morboso legame che ebbe con Gauguin (che pensò bene di scappare di fronte alla sofferenza dell’amico): tutto questo pesa sulla sua pittura, non è possibile negarlo. Ma come scrisse Jaspers la schizofrenia di Van Gogh fu anche l’ostetrica del suo genio. Avendo ancora negli occhi la visione di questo confronto fra Van Gogh e Munch, mi sono recato al Rijksmuseum e mi è sembrato di ritrovare nelle opere tarde di Rembrandt quello stesso fermento materico del colore da un alone luminoso che si condensa in grumi di terra incandescente, la stessa di cui ha nostalgia Van Gogh quando dipinge, con altri colori, la volta stellata. In un grumo di materia su questa terra può celarsi lo stesso mistero che informa l’intero cosmo. Munch cerca di fissare nelle forme anomale, strane, una ossessione che è nordica, ma è anche molto legata al mito femminile: la donna è sentita come una realtà perturbante, quella che il simbolista Jean Delville nel 1891 rappresenterà come “idolo di perversità” (tema di un celebre libro di Bram Dijkstra di una trentina d’anni fa). La donna è un vampiro che prosciuga l’uomo di tutte le sue energie, così Munch la rappresenta in quadri e disegni; e anche quando, dando scandalo, esegue un nudo femminile e lo intitola Madonna, l’immagine non ha nulla di puro o di sacro, è l’immagine di una bellezza che attrae per distruggere. Senza avere precise competenze psicoanalitiche, Munch fa della donna il testimone iconico di quel dualismo fra eros e thanatos che occuperà la riflessione di Freud.  Il punto di intersezione tra i due protagonisti sembra essere Gauguin, il suo “primitivismo” panico ed esotico; ma soltanto sotto il profilo estetico, perché la sua idea di primordialità è istintivamente antitragica. Ma fra i due «iniziatori indiscussi dell’arte moderna», come i curatori della mostra definiscono Van Gogh e Munch alludendo alla nascita dell’espressionismo, corre un solco profondo. L’accostamento di oltre cento opere dell’uno e dell’altro in modo quasi didascalico, secondo i medesimi temi figurativi (autoritratti, paesaggi, figure), è forse troppo semplice e spesso senza evidenti e ben circoscrivibili riscontri: più che un pendant figurativo, si potrebbe trovare qualche risonanza cromatica, ma il linguaggio pittorico dei due è inaccostabile proprio in ragione della diversità della loro idea del “primitivo”, del gesto fondatore, che in Van Gogh è plastico-materico e in Munch psichico-sintetico. Anche l’angoscia che si percepisce nelle loro opere è di segno totalmente diverso: l’ossessione di Munch è confinata dentro una idea della “malattia” tipica della cultura centro-nordica europea (pensiamo a Thomas Mann), non esente da un sentimento magico e pagano, secondo la categoria freudiana del “perturbante”; quella di Van Gogh è filtrata da una conoscenza dell’arte che assurge a religione esistenziale, viatico spirituale, forse la testimonianza più forte nel suo tempo contro la “morte dell’arte”.  In definitiva, se entrando al museo Van Gogh qualcuno chiedesse ancora «dov’è l’Urlo», bisognerebbe rispondergli che si tratta di allucinazione; quell’opera infatti è la prova più certa di una indebita identificazione fra personalità e storie del tutto differenti, che la mostra – la cui gestazione è durata ben sei anni – anziché mettere in chiaro tenta ancora una volta di sovrapporre. Ma l’infinito in cui le due rette dovrebbero incontrarsi resta più un desideratum  che una verità acclarata.
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