sabato 23 maggio 2009
Il j’accuse dell’intellettuale senegalese: «I nostri autori dovrebbero far sentire di più la loro voce. Per quanto riguarda i film, c’è poi una diminuzione di quantità e qualità. E anche le nostre tv ormai sono colonizzate»
COMMENTA E CONDIVIDI
Giornalismo, letteratura, ci­nema, televisione… Ovvero l’Africa che comunica, si e­sprime e crea, vista attraverso gli occhi di un grande comunicatore africano Boubacar Boris Diop. Classe 1946, nato a Dakar, viaggia­tore per passione e professione, Diop è oggi uno dei più importan­ti scrittori senegalesi e del conti­nente africano. Estremamente cordiale, si prende il tempo della parola, tanto nella comunicazione orale che in quella scritta, spa­ziando nel mondo della comuni­cazione africana di oggi, di cui è protagonista e che frequenta a di­verso titolo. Lo stesso Diop, infatti, è stato direttore di un giornale ( Le Matin di Dakar) ed è tuttora gior­nalista; ha scritto numerosi libri (il più conosciuto in Italia, Murambi. Il libro delle ossa, edito da e/o, mentre in settembre uscirà la ver­sione francese del suo ultimo ro­manzo, Doomi golo, scritto origi­nariamente in wolof); si è dedica­to al cinema attraverso la stesura di diverse sceneggiature e recen­temente come giurato in numero­si festival. È quanto è successo re­centemente Ouagadougou, in Burkina Faso, nell’ambito della quarantesima edizione del Festi­val panafricano del cinema (Fe­spaco). Mentre qui a Milano, a fi­ne marzo, in occasione del Festi­val del cinema d’Africa, Asia e A­merica Latina, è stato chiamato a presiedere la giuria. Monsieur Diop, come si racconta oggi l’Africa attraverso il suo ci­nema? «Sarei tentato di dire che l’Africa non esiste. Esistono piuttosto al­cune cinematografie molto parti­colari e importanti, legate a conte­sti specifici, come quello del Su­dafrica, che hanno poco in comu­ne con quelle del Senegal o del Burkina Faso o di altre parti del­l’Africa. Il cinema in Africa, spe­cialmente nell’area francofona, è stato molto condiziona­to dalle produzioni delle ex potenze coloniali che oggi hanno tagliato drasticamente i fondi. Mentre altre cinematografie - specialmente quella sudafricana o nigeriana ­stanno emergendo con nuovi pro­dotti ». Eppure, complessivamente, pare che la cinematografia africana stia attraversando una fase di cri­si molto difficile… «Dobbiamo certamente constata­re una diminuzione sia della quantità che della qualità dei film. Tuttavia, un genere come il docu­mentario, sin qui trascurato, sta diventando molto importante e interessante, con opere coraggio­se. In particolare, sono stato mol­to colpito dalle realizzazioni di al­cune giovani donne africane, che hanno affrontato temi politica­mente molto sensibili, come le sparizioni in Marocco, durante il regime di Hassan II, o gli squadro­ni della morte a Douala, in Came­run. È un modo di farsi carico del­la realtà e della situazione di quei Paese molto più rischioso della fiction». Purtroppo, però, quasi nessuno in Africa vede questi documenta­ri, come del resto i film… «È vero. Non ci sono sale, non c’è pubblico. In un certo senso è la morte annunciata del cinema afri­cano. Una cinematografia sotto l’influenza e l’assistenza occiden­tale, specialmente francofona, che oggi le impedisce di esistere. Con l’unica eccezione, forse, della pro­duzione video nigeriana, che si va diffondendo massicciamente in tutto il continente». Lo scenario allora è quello della la scomparsa del cinema e del do­minio assoluto della televisione? «Di fatto sì. La tv gioca un ruolo molto importante, fondamentale, in Africa. E se si esclude la produ­zione nigeriana, pochi altri hanno la capacità di proporre program­mi e produzioni che possano far concorrenza a quelli che vengono da fuori. Ormai in Africa siamo tutti sul satellite. Anche per quan­to riguarda le notizie, spesso si guarda all’Europa o agli Stati Uni­ti. In Senegal, ad esempio, il tele­giornale francese va in onda esat­tamente alla stessa ora di quello locale. E molti scelgono quello di Parigi. Fa parte del processo di oc­cidentalizzazione del mondo, che passa non solo attraverso il mer­cato, ma anche e soprattutto at­traverso i media». Un discorso analogo potrebbe es­sere fatto per la letteratura, che fatica a essere pubblicata e letta nel continente. Gli scrittori afri­cani non sono conosciuti in Afri­ca, o molto poco, e dunque inci­dono pochissimo nell’opinione pubblica locale. Che ne pensa? «Sono d’accordo per quanto ri­guarda i libri. Ma molti di noi han­no altre opportunità di comunica­zione che vanno al di là delle ope­re che scriviamo, e che ci permet­tono di intervenire nel dibattito pubblico, non solo culturale, ma anche politico e sociale. Io, ad e­sempio, sono anche giornalista, ho diretto a lungo un giornale e continuo a scrivere e a fare tra­smissioni radiofoniche. E resto convinto che ancora oggi la radio sia un ottimo strumento per diffondere notizie e idee in Africa. Ma dobbiamo essere capaci di sfruttare meglio quegli spa­zi di libertà che or­mai si sono aperti in molti dei nostri Paesi».
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: