sabato 11 luglio 2020
A partire dall’11 luglio 1995 nell’arco di tre giorni l’esercito serbo uccise 8.372 maschi bosniaci musulmani tra i 12 e i 77 anni, sotto lo sguardo dei caschi blu
Una ragazza cammina nel memoriale di Potocari, a Srebrenica

Una ragazza cammina nel memoriale di Potocari, a Srebrenica - Epa/Fejim Demir

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L’11 luglio 1995, a tre anni e quattro mesi dall’inizio del conflitto nei Balcani conseguente alla dissoluzione della ex Jugoslavia, nei pressi della città bosniaca di Srebrenica venne perpetrato il più grave massacro di civili in Europa dalla fine della seconda guerra mondiale. Nell’arco di tre giorni circa ottomilaquattrocento maschi bosniaci, cioè musulmani, dai 12 ai 70/77 anni vennero trucidati da miliziani dell’esercito serbobosniaco e buttati dentro fosse comuni. Che una nube nera – carica di secolari odii e violenze – si addensasse sui Balcani era apparso chiaro subito dopo la morte di Tito. Gli osservatori internazionali sapevano che la municipalità di Srebrenica rappresentava un punto particolarmente critico: era infatti l’enclave bosniaca, di medie dimensioni, più penetrata in terra di cultura serba. Per questo con varie risoluzioni l’Onu aveva – non smilitarizzato, come erroneamente si legge, bensì – posto sotto il proprio controllo la pur guerreggiata area, al dichiarato scopo di proteggere i bosniaci sino alla fine delle ostilità, stanziando un contingente di caschi blu olandesi in un compound a Potocari, nei pressi della città. Quest’ultima non era ricca, sebbene vantasse un passato di secolari commerci con croati, slavoni, serbi, ragusei, ungari, albanesi, greci e veneziani; era abitata soprattutto da musulmani che grattavano dalla terra quanto occorreva loro per vivere, o che tentavano di sopravvivere nelle fatiscenti strutture industriali della post Jugoslavia; ma non poteva rimanere una spina conficcata nel fianco delle nuove acquisizioni territoriali reclamate da Belgrado dopo 3 anni di guerra; guerra peraltro ormai al termine, col fallimento del progetto della “Grande Serbia” di Milosevic, di Karadzic, del loro partito e del loro braccio armato. Si trattava di consolidare il conquistato. E per questo l’orrore ebbe inizio.

Dopo un lungo assedio – protratto, se non impedito, sino ad allora, dalla apparente dissuasione Onu – con azioni militari tra assedianti e assediati, il 9 luglio il generale Mladic, conosciuto come “il macellaio dei Balcani”, era riuscito a entrare a Srebrenica. Sapendo cosa li aspettava, i bosniaci era fuggiti in massa verso la base Onu per trovarvi protezione, ma ne erano stati tenuti fuori; e lì si ritrovarono dunque tutti concentrati ad aspettare il nemico. I caschi blu olandesi fecero di peggio che rimanere inattivi; collaborarono – forse per inconsapevolezza, forse per impossibilità di opporsi, o per puro e semplice abbandono, in una guerra agli sgoccioli, della missione di pace che li aveva portati lì – alla seguente richiesta di Mladic: separare dalle donne e dai “bambini”, tutti i maschi dai 12 ai 70/77 anni per identificarli e accertare che non avessero collaborato coi nemici. Erano disarmati, inermi; tra loro si trovavano, attaccati alle madri, molti ragazzini palesemente non belligeranti, ma avviati al massacro “purchè più alti di un fucile”; così vi furono fratelli, anche gemelli, dei quali uno si salvò, a 12 anni, perché meno alto di un fucile serbo, mentre l’altro, per qualche dito in più, no. Fecero anche altro, gli olandesi: consegnarono agli ucciso- ri i circa 350 bosniaci ch’erano riusciti a entrare nella base o che da tempo si trovavano lì. Mentre avveniva questo, il comandante Mladic si faceva riprendere a solidarizzare con famiglie dei bosniaci i cui maschi stava ordinando di uccidere in massa, garantendo agli stremati ex assediati (donne, vecchi e bambini) acqua, cibo, medicine e distribuendo caramelle ai più piccoli; ciò, accanto ai sorridenti responsabili olandesi Unprofor, che posavano con lui per le foto e i filmati di rito.

Nessuno realmente può dire come avvenne la carneficina nei tre giorni a partire dall’11 luglio, con un colpo alla nuca o con colpi alla testa, a uomini legati in fila sull’orlo delle fosse, e quindi senza gli strumenti tecnologici di annientamento industriale censiti nei lager tedeschi cinquant’anni prima. Ma dev’essere stata simile alle fosse di Katyn, piene dei polacchi, trucidati dai bolscevichi all’inizio della seconda guerra. Non c’è più traccia di grida, di pianti, d’implorazioni, di tentativi di fuggire, di corpi rovesciati, di fiumi di sangue, di nulla. Una sorte comune a molti altri orrori ebbe infatti Srebrenica, il silenzio, secondo la legge per cui i morti non parlano e i carnefici neppure. Ma parlano i cadaveri che da vent’anni si stanno recuperando dalle fosse. Ogni anno se ne aggiorna il numero ed è stato identificato quasi l’85% delle salme estratte, grazie soprattutto all’esame del dna dei familiari. Per altre salme non sarà possibile, forse non verranno neanche recuperate e si confonderanno per sempre con la terra. Il volto del male può assumere varie sembianze, ma forse poche più sfuggenti e mutevoli che nei Balcani, per i quali si è infatti creato una parola, “balcanizzazione”, destinata a descrivere l’impossibilità di ricondurre a un’unica matrice indomabili contrapposizioni e odii, ostilità e violenze; termine che viene usato nel mondo dei media, dei politologi e storici, con disinvoltura e toni lontanissimi dalle tragedie che copre. Cosa vuol dire “balcanizzazione”? Vuol dire che le vittime di Srebrenica, e di altre città, sono i discendenti degli assassini musulmani di ieri: chi ha letto Il ponte sulla Drina del premio Nobel Ivo Andric, sa quanto i Balcani siano la tana dell’odio, per tutta una serie di circostanze storiche vecchie di mezzo millennio, le quali hanno avuto come protagonisti, fino al Novecento, ora i serbi ortodossi, ora i titini infoibatori, ora gli ustascià croati cioè gli ultranazionalisti cattolici dell’Erzegovina alleati di Hitler, ora i bosniaci musulmani. Non c’è un dio nell’odio, c’è solo un’ideologia che, da una parte e dall’altra, lo chiama in mezzo alla negazione dell’uomo come valore, sempre e comunque.

Oggi la devastata Bosnia–Erzegovina a stento sopravvive alle inutili stragi del 1992–95, separata in collettività senza contatti tra loro, al di là della formale appartenenza a uno stato inesistente, imposta, poche settimane dopo Srebrenica, dagli accordi di Dayton. I processi, nel 2020, non trovano più tribunali attivi, anche se Mladic è stato arrestato anni fa in Serbia, dove viveva sotto falso nome, processato e condannato all’ergastolo; al pari dei politici suoi mandanti o referenti, anch’essi consegnati a pene detentive, non condivise – va detto – in patria. Nessuno risarcirà i morti di Srebrenica. Per loro la guerra e la ingiustizia, la pace e la – tardiva, inadeguata – “giustizia” umana non sono più percepibili dai cimiteri e dalle fosse comuni di Bosnia. Sulla quale, dopo la dissoluzione dell’Isis, altro odio di presenze integraliste è tornato a insediarsi oggi, con precise protezioni internazionali islamiche, circostanza che motivatamente preoccupa governi e prefetture d’Europa. Dall’odio nasce solo odio – scrisse un poeta greco 2.500 anni fa – ma il perdono sembra impossibile in Bosnia. Per essere almeno teoricamente praticato, dovrebbe avere di fronte dei pentiti: quindi conoscere volti e nomi, tuttora invece ignoti o nascosti. La memoria di un venticinquennale, come questo del 2020, può essere allora utile solo come primo passo per dire che il mondo ha almeno presente il nome Srebrenica.

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