domenica 11 luglio 2021
Famoso trovatore, scrisse molte composizioni, la più celebre come satira su ser Blacatz e la codardia dei potenti del suo tempo, invitandoli a strappare il cuore dal petto del despota e a cibarsene
Cesare Zocchi, "Dante e Virgilio incontrano Sordello". Trento

Cesare Zocchi, "Dante e Virgilio incontrano Sordello". Trento - WikiCommons

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Il ruolo essenziale del mito di Sordello nella storia della poesia è magnificamente ricapitolato da Oscar Wilde nel suo Amor intellectualis: «ovente abbiamo percorso le valli di Castalia / e inteso i dolci accenti di una musica / campestre suonata da antichi flauti [...] / e sovente abbiamo preso il largo / su quel mare // ove le nove Muse hanno stabilito il loro impero e tracciato / in libertà il nostro solco tra onde e schiume / [...] // Di questi tesori, di queste spoglie, ecco ciò che resta: / la passione di Sordello, il profilo soave del giovane / Endimione, […] e meglio di tutto questo la settupla visione / del Fiorentino e le armonie solenni / di Milton dalla fronte austera». Tutta la poesia occidentale è raccolta in quei nomi: il Sordello di Robert Browning, l’Endymiondi Keats, il Tamerlaen di Marlowe e La Divina Commedia che di quel mito è l’origine (e di quella l’epico moderno compianto che è il Paradise Lost di Milton). La vita stessa di Sordello, associata a quella di Cunizza da Romano, diviene da Dante a Pound un nodo indissolubile. Sordello da Goito presso Mantova, vissuto tra la fine del secolo XII e il XIII, trascorre la sua giovinezza presso le corti di Azzo VII d’Este a Ferrara, a Verona presso Riccardo di san Bonifacio; qui egli rapì Cunizza da Romano (moglie di Riccardo e sorella di Ezzelino da Romano): il gesto temerario fu amplificato in epoca romantica; ma anche a Treviso, presso i da Romano, la passione d’amore lo legò a Otta di Strasso. Ebbe poi a riparare presso Raimondo Berengario IV in Provenza e di lì presso Carlo d’Angiò, con il quale venne in Italia nel 1265, restandovi fino alla morte avvenuta a Napoli nel 1269. Scrisse molte composizioni poetiche in provenzale, la più celebre delle quali è il Compianto, scritto in occasione della morte di ser Blacatz, nobile di Provenza. In tale Planh compare, sin dalla prima strofe, il tema del 'cuore mangiato' («qu’om li traga lo cor e que?n manio?l baro / que vivon descorat, pueys auran de cor pro»: «che gli sia tratto il cuore e che ne mangino i baroni / che vivono senza cuore; e ne avranno abbastanza»), simbolico pellicano che offre le viscere della propria generosità a politici 'senza cuore'. È questa la simbolica che ispira l’invettiva del Sordello dantesco, anche se il tema del 'cuore mangiato' era già apparso all’inizio stesso della Vita nova, segnacolo in sogno del destino di Beatrice: «Ne le sue braccia mi parea vedere una persona dormire nuda, salvo che in- volta mi parea in uno drappo sanguigno leggeramente; la quale io riguardando molto intentivamente, conobbi ch’era la donna de la salute, la quale m’avea lo giorno dinanzi degnato di salutare. E ne l’una de le mani mi parea che questi tenesse una cosa, la quale ardesse tutta; e pareami che mi dicesse queste parole: 'Vide cor tuum'. E quando elli era stato alquanto, pareami che disvegliasse questa che dormia; e tanto si sforzava per suo ingegno, che la facea mangiare questa cosa che in mano li ardea, la quale ella mangiava dubitosamente. Appresso ciò, poco dimorava che la sua letizia si convertia in amarissimo pianto; e così piangendo, si ricogliea questa donna ne le sue braccia, e con essa mi parea che si ne gisse verso lo cielo» (cap. III). Si tratta dunque di un canto, il VI del Purgatorio, che annoda molti fili della poetica dantesca: nel reciproco riconoscersi di Sordello e Virgilio come mantovani c’è come un’autorizzazione da colui che celebrò i fasti di Roma all’invettiva sulla corrotta Italia presente; nel ricordo dell’opera del poeta politico il modello, per Dante, di una visione di magnanimità che deve animare i principi che reggono la cosa pubblica e un incitamento a proclamare il vero come l’aveva proclamato Sordello: «Male mi vorranno i baroni per ciò che dico a ragione, / ma sappiano bene che poco li stimo quanto poco mi stimano». In quell’incontro di anime generose emerge il doloroso sdegno per l’Italia presente, derelitta e proterva, alla quale Dante rivolge un’amara apostrofe: «Cerca, misera, intorno da le prode / le tue marine, e poi ti guarda in seno, / s’alcuna parte in te di pace gode». Questo intemerato giudizio ispirerà certo le consimili canzoni all’Italia di Petrarca e di Leopardi: «Italia mia, benché ’l parlar sia indarno / a le piaghe mortali / che nel bel corpo tuo sì spesse veggio» (RVF, CXXVIII); «Piangi, ché ben hai donde, Italia mia, / le genti a vincer nata / e nella fausta sorte e nella ria» (Canti, I); ma in Dante si dispiegano le cause del dop- pio tradimento di impero e papato, incapace l’uno e l’altro di esercitare la propria funzione salvifica: «Che val perché ti racconciasse il freno / Iustinïano, se la sella è vòta?» ( VI, 88-89), se il seggio del legittimo titolare dell’impero romano è vacante dalla scomparsa di Federico II? Se il successore, Alberto I d’Austria assiste indifferente alla riottosa anarchia in cui versano le città, preda di fazioni: «Vieni a veder Montecchi e Cappelletti, / Monaldi e Filippeschi, uom sanza cura: / color già tristi, e questi con sospetti! / Vieni, crudel, vieni e vedi la pressura / d’i tuoi gentili, e cura lor magagne / [...] / Vieni a veder la tua Roma che piagne / vedova e sola, e dì e notte chiama: / 'Cesare mio, perché non m’accompagne?'» ( VI, 106-114). Come nelle Epistole politiche, lo sguardo di Dante discende dall’Impero all’Italia («Ché le città d’Italia tutte piene / son di tiranni, e un Marcel diventa / ogne villan che parteggiando viene») e da questa alla sua Firenze, alla quale è dedicata la sferzante parte finale del canto: «Fïorenza mia, ben puoi esser contenta / di questa digression che non ti tocca, / mercé del popol tuo che si argomenta. / [...] / Quante volte, del tempo che rimembre, / legge, moneta, officio e costume / hai tu mutato, e rinovate membre! / E se ben ti ricordi e vedi lume, / vedrai te somigliante a quella inferma / che non può trovar posa in su le piume, / ma con dar volta suo dolor scherma» ( VI, 127-151). È un compianto, ormai, quello di Dante esule sulla sua Firenze, ben diverso dalla affilata accusa che aveva indirizzato ai Fiorentini dell’Epistola VI, 2: «E voi, che trasgredite le leggi divine e umane, che l’avidità feroce della bramosia ha predisposto a ogni delitto, non siete angosciati dal terrore della 'morte seconda?' »; parole d’Inferno, applicate per sempre alla propria patria: «ove udirai le disperate strida, / vedrai li antichi spiriti dolenti, / ch’a la seconda morte ciascun grida» ( Inf., I, 115-117). Ma su tutto ormai si è disteso il peso dell’esilio, quasi spirasse su quella fierezza – «a guisa di leon quando si posa» – una nuova beckettiana lontananza: «Si è guardato intorno come per incidere nella sua memoria i punti di riferimento e deve aver visto la roccia all’ombra della quale mi sono accucciato come Belacqua o Sordello, non ricordo» ( Molloy, 1951).


Terzine eponime


Surse ver’ lui del loco ove pria stava,

dicendo: «O Mantoano, io son Sordello

de la tua terra!»; e l’un l’altro abbracciava.

Ahi serva Italia, di dolore ostello,

nave sanza nocchiere in gran tempesta,

non donna di provincie, ma bordello!

(Purgatorio VI, 73-78)

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