mercoledì 20 ottobre 2021
Parla la scrittrice turca che nel saggio “La fiducia e la dignità” propone un percorso tra morale e politica: «Il presente si salva insieme. L’urgenza maggiore di oggi? Ridare valore alla dignità»
Ece Temelkuran al XXXIII Salone internazionale del Libro di Torino

Ece Temelkuran al XXXIII Salone internazionale del Libro di Torino - Pasquale Juzzolino

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Con Ece Temelkuran ci eravamo lasciati un paio di anni fa, tra il dilagare dei populismi e le incertezze della Brexit. Erano alcuni dei temi affrontati in Come sfasciare un paese in sette mosse, libro amaro e lungimirante nel quale l’autrice lanciava l’allarme: la democrazia è sotto assedio ovunque, non solamente in Turchia, il Paese in cui Temelkuran è nata e che ha dovuto lasciare a causa della sua opposizione al Governo di Ankara.

Nei giorni scorsi la scrittrice è tornata in Italia per presentare al Salone internazionale del Libro di Torino il suo nuovo saggio, La fiducia e la dignità, edito come il precedente da Bollati Boringhieri (traduzione di Giuliana Olivero, pagine 144, euro 17,00). Al posto delle strategie tipiche dei sovranisti di ogni latitudine, adesso ci sono le «scelte urgenti per un presente migliore». Dove a incuriosire è appunto il rimando al presente. «Sì – ammette Temelkuran –, di solito si preferisce parlare di un futuro migliore. Ed è comprensibile, intendiamoci. In fondo, ogni nostra azione è destinata a influire sul futuro. Ma c’è un problema».

Quale?

«Nella condizione in cui ci troviamo, non siamo più sicuri di avere un domani su cui contare. L’emergenza climatica e la stessa pandemia sono segnali incontestabili: il tempo sta scadendo. Tutto quello che possiamo fare va fatto subito, senza più esitazioni. Dobbiamo imparare ad agire insieme, a prenderci cura gli uni degli altri. Dobbiamo farlo adesso, prima che sia troppo tardi».

È per questo che nel suo libro dà molto spazio alle iniziative dei giovani?

«A partire dalle Primavere arabe si è affacciata sulla scena una generazione che non si pone più l’obiettivo della conquista del potere. Al contrario, vuole farsi carico dei processi di trasformazione, percepiti in tutta la loro impellenza e necessità. Dalla Spagna a Hong Kong fino ai Fridays for Future, questo movimento globale rappresenta il congedo definitivo dal modello che si era affermato nell’Ottocento e che ha trovato piena espressione nel Novecento. Non più un regime che ne scalza un altro, ma un’occasione per ripensare le relazioni tra gli esseri umani. Già prima del Covid-19, del resto, era evidente come la crisi fosse anzitutto di natura morale. Una nozione che adesso inizia a essere condivisa e che ci fa sentire un po’ meno sole».

Come mai usa il femminile?

«Perché le donne sono state le prime a rendersi conto di quello che stava accadendo e a dichiararlo, anche a costo di essere prese per pazze. Il XXI sarà un secolo profondamente femminile, non tanto per il moltiplicarsi delle donne in posizioni di responsabilità, quanto per la riscoperta della dimensione femminile che è propria di ogni essere umano. Il mito dell’uomo forte ha già fatto abbastanza danni, non possiamo permetterci di lasciarcene incantare una volta di più».

Sono le premesse per avere fede?

«Per me personalmente si tratta di conservare la fede nell’umanità, il che oggi come oggi non è affatto scontato. Nel periodo del lockdown le immagini delle città deserte, nelle cui strade si affacciavano gli animali, sono state interpretate come la prova che il pianeta se la caverebbe meglio senza gli esseri umani. Certo, l’umanità ha mostrato spesso il suo volto peggiore, ma non per questo dobbiamo arrenderci all’idea che non meriti di esistere. Qualsiasi ipotesi di cambiamento, a mio avviso, passa attraverso un profondo ripensamento di ordine morale».

Ma lei perché crede nell’umanità?

«La ragione principale sta nella determinazione con cui gli esseri umani si sforzano di creare bellezza. Da qui discende, tra l’altro, la capacità di istituire rapporti di amicizia, capaci di contrastare la rabbia che sembra essere diventata il linguaggio dominante dei nostri anni. Se vogliamo disinnescare questo meccanismo, che comporta l’uso politico della rabbia, abbiamo il dovere di istituire forme alternative di comunicazione, contraddistinte dalla solidarietà e dalla fiducia».

Recuperando dignità?

«Restituendo cittadinanza politica alla dignità, esatto. Fino a qualche tempo fa una storia come quella raccontata nella serie tv coreana Squid Game non avrebbe innescato alcun processo di emulazione. A nessuno sarebbe venuto in mente di mettere a repentaglio la propria vita per assicurarsi un montepremi milionario. In rete, invece, si trova chi è disposto a mettere in pratica la follia che Squid Game vorrebbe condannare. Non le sembra terrificante?»

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