domenica 18 maggio 2014
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Il Piave mormora da cent’anni e da cent’anni anche il Brenta non fa che scorrere sotto il ponte di Bassano, quello dove – chissà perché – gli al­pini si stringono la mano. Sempre da un secolo c’è una tradotta in par­tenza da Torino «e la va diretta al Piave», mentre sul monte Ortigara risuo­na l’eco di lugubri «ta-pum / ta-pum / ta­pum »... Oggi un po’ meno perché l’Italia sta perdendo la voglia di cantare (o meglio, la investe in tutt’altri karaoke di prima sera­ta); ma comunque ancora moltissimi – tra singoli e cori – tramandano viva la tradi­zione delle canzoni popolari della Grande Guerra. Se c’è infatti una prova che il ’15-’18 fu dav­vero evento «di popolo», la si trova nel re­pertorio delle cante alpine: da Sul cappel­lo a Sul pajòn, da Era una notte che piove­va a Bombardano Cortina... Anche se – in verità – la prima sorpresa per chi scava tra i testi semplici e le melodie orecchiabili diffuse a tutto lo Stivale partendo da quel­le trincee, è scoprire che gran parte delle hit in grigioverde sono tutt’altro che nate al ritmo del cannone, almeno di quello del Carso o d’Adamello: alcune infatti risalgo­no a ben più antiche battaglie e altre invece sono state tranquillamente scritte a tavo­lino come opera «d’autore» (uno su tutti: il compositore dilettante ma prolificissi­mo E. A. Mario, pseudonimo del napole­tano Giovanni Gaeta, autore di successi in­discussi come E le stellette che noi portia­mo e La leggenda del Piave, che inizia ap­punto col celebre verso del mormorio). Certo: immaginare che un versetto peren­torio e marziale come «Non passa lo stra­niero! » venne cantato per la prima volta con accompagnamento di mandolino po­trebbe far strano (eppure fu proprio così!); ancor di più sapere che l’inno risale sol­tanto al giugno 1918, ovvero quando il 24 maggio 1915 – gior­no dell’entrata in guerra del nostro Paese – era passato da un bel pezzo, an­zi per fortuna si in­travedevano le avvi­saglie della pace. Ma lo stupore dovrebbe servire a rivedere non pochi luoghi co­muni correnti sulle canzoni attribuite a quel conflitto – e su quelle «alpine» in ge­nerale. Ta-pum? Ripete il rumore dei fucili, sì, ma prima ancora quello delle cariche che sal­tavano durante la costruzione del traforo del San Gottardo, onomatopea importata dai minatori trentini che vi lavorarono dal 1872 al 1880. Addio, mia bella, addio? In realtà è una marcia risorgimentale, canta­ta dai volontari a Curtatone e Montanara nel 1848. Il funereo Monte Nero? Probabil­mente risale a una canzone ottocentesca dedicata a un brigante milanese detto ap­punto «il Nero».  Il testamento del capita­no? Deriva da una ballata dedicata al mar­chese di Saluzzo ed è di ascendenza addi­rittura cinquecentesca... Si potrebbe continuare a lungo in questa rcerca di genealogia canora. Del resto pro­prio la pratica del «riuso» di motivi prece­denti e la mole delle varianti, delle stor­piature, delle parodie (attestata da anto­logie anche molto precoci, come quella di Piero Jahier e una addirittura del cappel­lano  padre Agostino Gemelli, oltre che da quella «definitiva» stampata nel 1981 in due volumi da Virgilio Savona e Michele Straniero), testimoniano la derivazione ge­nuinamente popolare di queste canzoni. Anche se i superiori comandi non tarda­rono a intuire la valenza psicologica del canto come strumento per distrarre e te­nere alto il morale della truppa e infatti commissionarono composizioni diretta­mente a professionisti (nell’autunno 1918 per l’inno della Terza Armata venne in­detto addirittura un pubblico concorso che raccolse ben 62 partecipanti), pezzi in cui tromboneggia un tono trionfalistico lontanissimo dal realismo delle prime li­nee.Pure la retorica lugubre e nostalgica per­petuata da troppe esecuzioni «alpine» for­zatamente solo maschili, andrebbe tutta­via ridimensionata: nei repertori della Grande Guerra si trovano infatti anche pa­recchia scanzonatezza, ironia, persino sberleffi (ferocemente censurati se sco­perti, è ovvio) contro i generali che man­davano a morire come carne da macello i figli dei poveri contadini. Oggi ben meno note dei classici Dove sei stato, mio bel­l’alpino? e Monte Canino, negli accampa­menti circolavano elementari ma esplici­te composizioni antimilitariste magari im­bastite su ariette da varietà di Petrolini: «Il general Cadorna davvero è un gran por­tento/ con undici a­vanzate ha preso il Tagliamento!»; «Il battaglione Edolo sta sempre sulle cime/ e quando scende a val­le el roba le galline»; «Tu piglia ’nu fetien­te, eccoti fatto lu ser­gente»... Innocenti antidoti al­la disciplina, inoffen­sive proteste di gente abituata da secoli a mugugnare contro i “padroni” ma poi – giunti al dunque – ad obbedire in silenzio; d’altronde il vero e­roismo non si dà mai troppo peso. Così nelle pietraie del Carso o nel fango di Ca­poretto, i cafoni del Sud trovarono certa­mente modo d’intendersi sulla materia col popolino del Nord, anche a suon di musi­ca. Sebbene infatti la tradizione accrediti la maggior parte delle cante belliche al so­lo corpo degli Alpini, dunque a genti set­tentrionali dal Piemonte al Veneto al Friu­li, non mancano (e sarebbe peraltro da chiedersi come mai non si siano prodotti o conservati con uguale abbondanza) e­semplari provenienti da altri regioni, da diversi dialetti: «Tristu l’adiu ti dogu» pa­re cantassero ad esempio i soldati sardi la­sciando l’isola (si traduce «triste ti do l’ad­dio »), mentre i napoletani imprecavano salendo il monte San Michele «Va vatten­ne, va vattenne, sparagnece ’a sagliuta» («Vattene via, risparmiaci la salita»). Persino un successo della canzone partenopea come ’O surdato ’nnammurato («Oj vita, oj vita mia...») – peraltro opera di com­positori professionisti – nacque nel 1915 i­spirandosi proprio ai militari partiti per l’«inutile strage». Ma ancor più curiosa suona la filastrocca che nell’ottobre 1918 i bambini dei dintorni di Vicenza appre­sero a memoria – pur senza capir nulla – direttamente dalle truppe inglesi del cor­po di spedizione inviato colà: «Gud baie, don saie..., trascrizione fonetica di una canzone che in italiano si sarebbe tradot­ta «Addio, non sospirare...». Insomma, la Grande Guerra compì una funzione di me­scolanza polifonica nazionale dei cui esi­ti abbiamo risentito fino a oggi, musical­mente ma ancor più culturalmente. Come dichiara il sito di uno del Coro alpino O­robica, uno dei più creativi d’Italia: «Il can­to alpino è un unicum italiano, che non ha paragoni nemmeno nelle altre nazioni vi­cine, e – lo si voglia o no – è stato ed è tut­tora un cemento nazionale». Sì, l’Italia è una repubblica fondata (anche) sul pajòn... 
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