giovedì 10 aprile 2014
Dopo i sindaci, gli storici: prosegue la discussione sulla proposta di sostituire nella toponomastica la “Vittoria” italiana con la “Concordia europea”
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Chi scuote il capo, chi annuisce, chi espri­me perplessità... La proposta, o la pro­vocazione di Franco Cardini di celebra­re la prima guerra mondiale nel nome non della vittoria ma della concordia, in­tervenendo pure sulla toponomastica, suscita tra gli storici reazioni discordi. Ma ha comunque il merito di aprire la discussione. Drastico è Francesco Perfetti, docente alla Luiss e di­rettore di “Nuova storia contemporanea”: «Non si può condannare un avvenimento, la Prima guerra mon­diale, che porta a compimento la rivoluzione delle na­zionalità avviata nell’Ottocento. Un processo lungo che dà vita a nazioni vere e proprie, una circostanza che non si può ignorare per non falsare la storia». Perfetti non nega che la guerra scoppiata nel 1914 abbia avuto in sé elementi tragici: «Per l’Italia ha voluto dire morte e sof­ferenza. Ma è stato anche il punto di arrivo del pro­cesso di unità nazionale. Nelle trincee, italiani che fi­nora si erano ignorati, del Nord e del Sud, cominciano a comunicare. Un altro aspetto negativo è la scompar­sa di un’intera classe dirigente morta sul fronte. Ma la guerra è stata anche un meccanismo di trasformazio­ne del Paese da agricolo in industriale, da rurale a ur­bano, determinando una forte mobilitazione sociale. Lo stesso sentimento religioso ha conosciuto un risve­glio ». E quindi il passaggio da “vittoria” a “concordia”? «Non mi convince affatto». L’idea non dispiace invece ad Agostino Giovagnoli, do­cente all’Università Cattolica: «Un passaggio dalla vit­toria alla pace storicamente ha senso. Le due guerre mondiali sono state decisive nella trasformazione del­l’Europa in continente di pace, e celebrare la pace di tutti anziché la vittoria di alcuni non è una proposta da scartare: il concetto stesso di “celebrazione della vitto­ria” è vecchiotto e tutti sappiamo la fine che fecero, di lì a poco, alcuni vincitori». Agli stessi nomi evocativi, ieri, di Trento e Trieste, oggi i cuori non si scaldano più tanto: «Il centenario, invece, può essere l’occasione per ricomprendere una tappa dolorosa ma significativa verso la pace. E la stessa Europa questo può insegnare al mondo: come fare la pace dopo secoli di guerra».  C’è poi chi condivide il punto di partenza di Cardini, ma non il punto d’arrivo. «È innegabile – spiega  Gian­paolo Romanato, docente all’Università di Padova – in questi anni abbiamo fatto assai poco per formare una coscienza europea, nonostante le migliaia di stu­denti Erasmus sguinzagliati per l’intero continente sia­no di fatto artefici di una nuova cultura, che non può non scalzare i vecchi nazionalismi. Però...». Però? «Ho forti dubbi che per costruire questa cultura occorra cambiare nome a qualche piazza. E poi non c’è solo la “vittoria”. Che ne dovremmo fare delle piazza Cesare Battisti e Nazario Sauro, dei viale Piave, Isonzo, Mon­te Nero e Monte Grappa? Cambiamo nome a tutto, compresa Vittorio Veneto?». In effetti la cosa si complica. «Lasciamo la toponomastica com’è, se non al­tro per non confondere ulteriormente le idee a troppi giovani digiuni di storia. Piuttosto, vorrei che l’allu­vione di celebrazioni in arrivo servisse a ricordare che la Grande Guerra fu la grande tragedia dell’Europa. Da lì a poco cominceranno gli orrori del secolo breve. E l’Europa che stiamo ricostruendo ora l’abbiamo di­strutta allora». Per Romanato c’è un unico personag­gio del tempo da celebrare veramente: «Benedetto XV, il papa che definì la guerra “suicidio dell’Europa” e “i­nutile strage”». E se la proposta di Cardini ottenesse un effetto oppo­sto a quello voluto, aggiungendo e non togliendo reto­rica? Se lo domanda Francesco Bonini, docente di Sto­ria delle istituzioni politiche e prorettore alla Lumsa: «Modificare la toponomastica, compresi i nomi delle battaglie, mi sembra un’operazione imposta dall’alto. E comunque in questo momento i ragionamenti sulla Prima guerra mondiale mi sembra accentuino l’ele­mento europeo, stemperando le possibili impostazio­ni nazionalistiche. Per le nuove generazioni quella guer­ra è una vicenda remota, almeno quanto per noi cin­quantenni, alla loro età, erano le gesta garibaldine». In questo gioco di generazioni, le passioni nazionalistiche sono assenti. «Semmai la guerra va letta nei grandi fat­ti strutturali che determinò: la nascita della società di massa e della mobilitazione collettiva, le sofferenze dei singoli inserite in quelle del popolo intero; e le innu­merevoli vicende personali, memorie straordinaria­mente simili da entrambi i lati del confine». Bonini ri­corda il progetto Europeana: «È la raccolta di memo­rie materiali: lettere, diari e oggetti. Il vissuto quotidia­no era identico in tutta Europa. Ci furono ragioni e tor­ti, ma le sofferenze individuali erano identiche, e ge­nerale il rifiuto della guerra». Infine, c’è chi definisce quella di Cardini una «provo­cazione utile», pur ritenendo inopportuno intervenire sulla toponomastica. Lo storico Alberto Monticone, autore del noto  Plotone d’esecuzione. I processi della Prima guerra mondiale, sottolinea l’importanza di «o­rientare le celebrazioni verso il senso di appartenenza dei popoli d’Europa a un destino comune». E la topo­nomastica? «L’esempio di Napoleone non mi pare cal­zante. Battezza Place de la Concorde da imperatore, certo non volendo propugnare una “concordia euro­pea”. E guai a sottovalutare i segni e i simboli della sto­ria, che sono poi i segni e i simboli della sofferenza del­la gente: per me devono rimanere inalterati, a comin­ciare da ossari e sacrari da entrambi le parti. Sono il se­gno forte di quanto raggiunto dalla nazione con quel sacrificio. Penso soltanto a come reagirebbero i fran­cesi, morti a centinaia di migliaia e loro sì “esaltati” dal­la retorica nazionalistica, se vedessero cancellati i se­gni della loro vittoria costata tanto cara. No, i segni re­stino. Si confrontino. E noi contemporanei traiamone l’insegnamento».

Monticone invita a mettersi nei pan­ni delle popolazioni dei territori occupati, dei profughi, dei prigionieri: come potrebbero riconoscere nelle lo­ro terre i segni della concordia? «Vedo semmai oppor­tuno – conclude – un impegno comune verso un’idea di Europa non come “grande nazione” contrapposta a qualcuno, ma “polmone del mondo”, realtà aperta. Do­po il tempo dei profeti, quando l’Europa era da co­struire, oggi viviamo un’Europa dai confini non più de­limitati e armati, ma spalancati. E sarebbe importan­te che nelle celebrazioni non fosse presente soltanto la sensibilità maschile, quella dei caduti, ma anche quel­la femminile. Le donne soffrirono indicibilmente, ne­gli ospedali, delle fabbriche, nelle campagne. Loro e solo loro hanno educato i bambini. Loro hanno tenu­to insieme il tessuto connettivo del Paese».

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