Si desidera di morire quando ci si sente soli
sabato 5 febbraio 2022

Siamo nei giorni in cui la Corte costituzionale è chiamata a pronunciarsi sull’ammissibilità del referendum sull’eutanasia e si ripropongono la domanda sulla scelta per che cosa vale la pena vivere e una riflessione sul valore della vita e sul suo significato, su quando la vita è degna di essere vissuta e continuata, sul perché si decida di intraprendere determinati percorsi.

La dignità della vita è un carattere ontologico e non può dipendere dal considerare esclusivamente l’efficienza economica, la godibilità consumistica, la bellezza e il livello di prestazione fisica, ma valutando le dimensioni relazionali, spirituali e religiose dell’esistenza. Decide di morire chi viene abbandonato. Sceglie di morire chi sente troppo dolore o chi sente di essere diventato un peso, soprattutto per i propri cari. È questa la realtà che dovremmo avere la forza di guardare in questi giorni. E nella Giornata nazionale per la vita innescare un dibattito, una riflessione in più, è un dovere verso il quale tendere dopo che su questo campo abbiamo registrato la diserzione della politica, che su temi etici di valore assoluto (ce ne sono di più alti di vita e morte?) ha dimostrato immobilismo, anche come espressione di ideologie.
In tv e sui giornali il dibattito è rimasto confinato sul pericoloso terreno dell’emotività legata alla narrazione di drammi individuali, perlopiù raccontati in terza persona. Mentre sono rimaste sullo sfondo, troppo sfocate, le inefficienze dello Stato, delle istituzioni nel supportare chi soffre e la sua famiglia. Chiunque si trovi in condizioni di estrema sofferenza va aiutato non a eliminare la propria vita ma a gestire il dolore e a superare l’angoscia e la disperazione.

Mi ha colpito nei mesi scorsi che perfino un grande sostenitore dei diritti come il giudice emerito della Corte europea dei diritti dell’uomo Vladimiro Zegrebelsky abbia richiamato in modo ampio «la limpida sentenza» della Corte costituzionale tedesca a favore del suicidio assistito, concludendo «che non spetta allo Stato sostituirsi alla persona nel valutarne le ragioni e ancor meno nel decidere in quali occasioni rispettare la volontà della persona e in quali no». E alla dichiarazione finale ha premesso che «lo Stato è tenuto a mettere in opera ogni mezzo per escludere vizi di quella drammatica decisione, offrendo anche alternative utili come trattamenti palliativi o altri interventi».

In questa fase di decisione di ammissibilità di un referendum dai contenuti così sconvolgenti, abbiamo sentito parlare troppo poco – direi niente – dei doveri dello Stato, delle istituzioni chiamate a escludere vizi di drammatiche decisioni offrendo tutto ciò che possa impedire scelte rinunciatarie garantendo ciò che è stato promesso: la presa in carico qualificata del paziente, offrendo un supporto adeguato alla famiglia, reti di servizi sociali e sanitari organizzati, solidarietà, coinvolgimento e sensibilità da parte dell’opinione pubblica.

Le istituzioni dovrebbero garantire al malato, alla persona con disabilità e alla sua famiglia ogni possibile, proporzionata e adeguata forma di trattamento, cura e sostegno, dall’inizio alla fine naturale del percorso di vita, anche con la malattia. La Costituzione italiana, tutte le leggi vigenti in Italia, il Codice di Deontologia medica, oltre alla Convenzioni sui diritti dell’uomo e la Convenzione sui diritti delle persone con disabilità, affermano la garanzia per tutti ad avere il diritto all’accesso alle cure. Ed è qui che l’impegno della medicina e della scienza deve concretamente intervenire per eliminare o alleviare il dolore delle persone malate o con disabilità e per migliorare la loro qualità di vita, evitando ogni forma di accanimento terapeutico, con la corretta e concreta applicazione della legge 38 del 2010 sulle cure palliative e la terapia del dolore. È questo che manca, e facciamo finta di non vederlo.

Invece di affrontare questo tema, abbiamo delegato tutto a un dibattito minore, portato avanti con ammirevole ostinazione dai battaglieri proponenti il referendum, i quali sono riusciti a raccogliere le firme necessarie semplificando fino all’inverosimile le questioni legate alla vita dell’uomo che soffre. È così che, grazie a influencer da social network, abbiamo finito per pesare con la bilancia della concezione nichilista il valore della vita. Sotto le sfavillanti luci della produzione e del profitto legato alle esuberanze individualiste sono state mostrate le piaghe del corpo come sventure altrettanto individuali; come se quelle fragilità del corpo non fossero in alcun modo curabili da altri, come se l’intera società potesse sottrarsi al dovere di proteggere la vita dell’uomo che soffre. Saremmo così condannati dunque a essere solo miliardi di io incapaci di farci carico dell’altro e diventare noi.

Temo che a questo serva il referendum: a consentire che una legge di cui in numerosi altri articoli ho già scritto come a mio parere non ci sia affatto bisogno ci autorizzi in qualche modo ad abbandonare alla morte le persone fragili tenendo a riposo le nostre coscienze. Non sono d’accordo. Scegliere la morte è la sconfitta dell’umano, la vittoria di una concezione antropologica individualista e nichilista in cui non trovano più spazio né la speranza né le relazioni interpersonali.
Dico una volta di più il mio "no". E lo faccio senza astrazioni, portando la mia esperienza, di medico, ricercatore, paziente, manager della sanità: la malattia non mi ha rubato le emozioni, i sentimenti, e mi ha insegnato la possibilità di comprendere che l’"essere" conta più del "fare". Questo non ha bisogno di essere normato oltre: ha solo bisogno di essere compreso in un dibattito che rimetta al centro il valore della vita.

Presidente di Fondazione AriSla per la ricerca sulla Sla
Amministratore delegato Istituti Clinici Scientifici Maugeri

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