martedì 29 aprile 2025
Durante il lungo ricovero, e poi nelle settimane dopo il ritorno in Vaticano, e fino alla Pasqua, Bergoglio ha composto un itinerario spirituale da malato per i malati. Con alcune idee illuminanti
Papa Francesco in piazza San Pietro il giorno di Pasqua, poche ore prima di morire

Papa Francesco in piazza San Pietro il giorno di Pasqua, poche ore prima di morire - Marco Iacobucci / ipa-agency.net

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La benedizione della fragilità, la tenerezza della cura, la luce che risplende nei luoghi della sofferenza, la compagnia del Signore... Nelle lunghe settimane del ricovero al Policlinico Gemelli (dal 14 febbraio al 23 marzo) papa Francesco ha composto un vero “magistero della malattia” che ha impresso la forza della testimonianza personale in quella prossimità al mondo del dolore e della cura che ha percorso il suo intero pontificato. Essere malato tra altri malati, persino esposto al pericolo della vita per la gravità della patologia, ha fatto attraversare al Papa la prova sperimentata dall’umanità sofferente, al centro del suo cuore e del suo magistero. La condizione di fragilità, così diffusa nella nostra società (e non solo per la malattia), oggi diventa infatti anticamera dello “scarto” denunciato dal Papa infinite volte, uno dei capisaldi del suo pensiero. Per questo il tempo del recente ricovero e della successiva convalescenza – rivelatasi poi una preparazione della morte – diventano una preziosa chiave di lettura per comprendere la figura e l’anima di Francesco nell’approssimarsi della fine, e illuminano anche tutto il suo magistero precedente sulla malattia espresso negli annuali messaggi per la Giornata del Malato dell’11 febbraio ma – forse soprattutto – nella consuetudine di chinarsi su ammalati e disabili anche gravissimi accompagnati a salutarlo alle udienze generali.

Nei messaggi inviati per gli Angelus domenicali dal letto del Gemelli papa Francesco ha meditato su tre “segreti” aperti dall’esperienza della malattia: la vulnerabilità che spinge a scoprire su cosa – e su Chi – fare affidamento; la dedizione di chi si mette al servizio dei sofferenti, metro della grandezza di cui è capace la nostra umanità; e la forza del sostegno degli altri quando si vive l’incertezza, il dolore, l’angoscia. La combinazione di queste verità umanissime che ci si mostrano evidenti quando siamo malati ha spinto il Papa a confidarsi al mondo condividendo un altro, decisivo segreto, oggi quasi scandaloso: mostrarsi nella propria fragilità, senza paura, perché se ne è compreso il senso profondo, è un fattore di forza, di cui certo non vergognarsi. È quello che ci aveva indicato attraversando la Porta Santa di San Pietro – primo “pellegrino di speranza” nella notte di Natale – sulla sedia a rotelle, simbolo di tutti i limiti umani che non tolgono nulla alla nostra dignità. Anzi.

Sono evidenze che a Francesco sono apparse chiarissime proprio durante l’ultimo ricovero, considerazioni che lo hanno probabilmente accompagnato nella preghiera delle ultime settimane. Con le consolazioni che, dentro la prova, il Signore gli andava elargendo, come carezze: «Avverto nel cuore la “benedizione” che si nasconde dentro la fragilità – ha scritto per l’Angelus del 2 marzo – perché proprio in questi momenti impariamo ancora di più a confidare nel Signore; allo stesso tempo, ringrazio Dio perché mi dà l’opportunità di condividere nel corpo e nello spirito la condizione di tanti ammalati e sofferenti». La malattia trasfigurata in un’occasione. Al punto da definirla “benedizione”, in uno dei punti forse più alti e toccanti di tutto il suo magistero.

A cambiare segno a un’esperienza che per il “mondo” è diventata uno stigma, il passaggio in una condizione di marginalità da scongiurare a ogni costo, è la compagnia, il non essere soli: «Anch’io sperimento la premura del servizio e la tenerezza della cura in particolare da parte dei medici e degli operatori sanitari, che ringrazio di cuore – si legge nell’Angelus del 9 marzo, un altro testo splendido tanto appare scaturito dalla sua meditazione più intima –. E mentre sono qui, penso a tante persone che in diversi modi stanno vicino agli ammalati e sono per loro un segno della presenza del Signore. Abbiamo bisogno di questo, del “miracolo della tenerezza”, che accompagna chi è nella prova portando un po’ di luce nella notte del dolore». Non è difficile calarsi con queste parole nel buio di oltre un mese di interminabili notti in ospedale, e avvertire con più forza per questo l’irrompere della luce: «Sto affrontando un periodo di prova, e mi unisco a tanti fratelli e sorelle malati: fragili, in questo momento, come me – è la sua riflessione distillata per l’Angelus del 16 marzo –. Il nostro fisico è debole ma, anche così, niente può impedirci di amare, di pregare, di donare noi stessi, di essere l’uno per l’altro, nella fede, segni luminosi di speranza».

La luce che promana dagli stessi ammalati: è il rovesciamento della logica oggi prevalente, che consiglia persino di “stare alla larga” da chi vive la malattia, pensando forse di non sapere cosa dire e cosa dare, mentre si dimentica che facendosi vicini e rompendo la solitudine dei pazienti si riceve in dono un’imprevedibile luce. Vale anche nella relazione tra curanti e curati: «Quanta luce risplende negli ospedali e nei luoghi di cura! – esclama Fracesco in quella stessa riflessione sulla luce –. Quanta attenzione amorevole rischiara le stanze, i corridoi, gli ambulatori, i posti dove si svolgono i servizi più umili! Perciò vorrei invitarvi, oggi, a dare con me lode al Signore, che mai ci abbandona e che nei momenti di dolore ci mette accanto persone che riflettono un raggio del suo amore». Un altro ribaltamento delle idee correnti: i luoghi di cura diventano punti di luce per ciò che di umano si vive al loro interno.

Un’idea che il 23 marzo si allarga al soprannaturale: «In questo lungo tempo di ricovero ho avuto modo di sperimentare la pazienza del Signore, che vedo anche riflessa nella premura instancabile dei medici e degli operatori sanitari, così come nelle attenzioni e nelle speranze dei familiari degli ammalati. Questa pazienza fiduciosa, ancorata all’amore di Dio che non viene meno, è davvero necessaria alla nostra vita, soprattutto per affrontare le situazioni più difficili e dolorose». Siamo al culmine del viaggio del Papa dentro la malattia: il 28 marzo, pochi giorni dopo il rientro a Santa Marta, scrive all’Assemblea sinodale delle Chiese in Italia parole che oggi suonano come un lascito, con l’indicazione del frutto imprevedibile della sofferenza: «La gioia cristiana non è mai esclusiva, ma sempre inclusiva, è per tutti. (...) . È dono di Dio – ricordiamolo sempre –; non è una facile allegria, non nasce da comode soluzioni ai problemi, non evita la croce, ma sgorga dalla certezza che il Signore non ci lascia mai soli. Ne ho fatto esperienza anch’io nel ricovero in ospedale, e ora in questo tempo di convalescenza. La gioia cristiana è affidamento a Dio in ogni situazione della vita». Eccolo, l’ultimo “segreto” di Francesco per noi.

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