venerdì 10 giugno 2022
Malato di cancro, aveva scelto di sospendere la nutrizione assistita e ricorrere alla sedazione profonda, fino al decesso, come previsto dalla legge 219 sul fine vita. Il cordoglio della diocesi
Antonio La Forgia

Antonio La Forgia

COMMENTA E CONDIVIDI

È morto nella sua casa di Bologna Antonio La Forgia, 78 anni, ex deputato di Ulivo e Pd, già presidente della Regione Emilia-Romagna. Da un anno e mezzo era malato di tumore. Il decesso è stato certificato alle 15 di venerdì 10 giugno, tre giorni e mezzo dopo la sospensione dei supporti vitali attivata a pochi minuti dalla mezzanotte di martedì 7 col conseguente ricorso alla sedazione profonda. Una decisione assunta secondo quanto prevede la legge sulle Disposizioni anticipate di trattamento, osservata la situazione clinica del politico bolognese.

Il cardinale Matteo Zuppi aveva telefonato alla moglie Maria Chiara Risolfi in mattinata, prima del decesso. Un gesto reso poi pubblico in una breve nota sul portale della diocesi: «La Chiesa di Bologna appresa la notizia della morte di Antonio La Forgia, ex-presidente della Regione Emilia Romagna, si unisce nel cordoglio ed esprime vicinanza alla famiglia elevando preghiere di suffragio nella certezza della risurrezione nel Signore. Anche l’Arcivescovo card. Zuppi nella mattinata di venerdì 10 giugno aveva espresso la propria vicinanza sentendo la moglie del politico, Maria Chiara Risoldi, anche con un messaggio» nel quale Zuppi affermava che «l’orizzonte raggiunto ci aiuta a fare una cosa che diceva Andrea Canevaro (celebre pedagogista bolognese scomparso di recente, ndr): “Lo sguardo deve essere bifocale: guardare il punto in cui sono e l’orizzonte al tempo stesso”. Antonio continua ad aiutarci a farlo. Vi sono vicino».

Nei giorni scorsi su Facebook era apparso un post della moglie del politico bolognese nel quale si leggeva che «per la legge il suo corpo è costretto ad essere ancora qui, mentre la sua mente è già arrivata in un luogo leggero. Siamo un Paese veramente ipocrita». Una dichiarazione che era stata amplificata per il fatto di essere giunta poche ore dopo l’analogo annuncio di distacco dei supporti vitali da parte di Fabio Ridolfi, il 46enne marchigiano affetto da tetraparesi da 18 anni che, dopo avere chiesto il suicidio assistito, aveva deciso di ricorrere a quanto prevede la legge 219 del 2017 sul fine vita (quella che ha introdotto le Disposizioni anticipate di trattamento, o Dat) che consente la sospensione di nutrizione e alimentazione, assimilandole a terapie, e la sedazione profonda, sino alla morte. La stessa procedura scelta da La Forgia.

Si è molto parlato in questi giorni di fine vita in relazione all'attesa di un’altra legge che recepisca quanto previsto dalla sentenza della Corte Costituzionale 242 del 2019 (quella sul caso dj Fabo) con la depenalizzazione di alcuni specifici casi di aiuto al suicidio per pazienti in condizioni gravissime affetti da malattie inguaribili, che provocano sofferenze fisiche e psichiche ritenute insopportabili, dipendenti da supporti vitali e in grado di assumere decisioni libere e consapevoli. La Consulta aveva aggiunto una quinta condizione, definendola «pre-requisito» per chiedere la morte medicalmente assistita, cioè la sottoposizione alle cure palliative. Proprio per il mancato accordo sull’inserimento nella nuova legge di questa condizione, come sul recepimento di altre modifiche al testo varato dalla Camera a marzo, la norma che introdurrebbe un’eccezione chiaramente delimitata alla perseguibilità del reato di aiuto al suicidio (articolo 580 del Codice penale, che resta in vigore) non ha ancora registrato un accordo politico al Senato. La legge è ora all’esame delle Commissioni Giustizia e Sanità di Palazzo Madama, nella fase delle audizioni, per le quali è previsto un calendario con esperti in campo sanitario. Si cerca il necessario consenso più ampio possibile per un provvedimento che va a incidere sulla vita degli italiani e che per la prima volta introdurrebbe una pratica di morte tra i servizi erogati dalla sanità pubblica.
Per i tre casi emersi nell’ultimo anno nelle Marche – "Mario", "Antonio" e Fabio Ridolfi, tutti sostenuti sul piano legale e mediatico dall’Associazione radicale Luca Coscioni nell’ambito della sua campagna per legalizzare l’eutanasia – è stato impossibile giungere all’accompagnamento medico alla morte perché in mancanza di una legge non ci sono neppure i conseguenti protocolli attuativi che devono definire in modo univoco modalità di esecuzione dell’atto, farmaco da usare, dosaggio, procedure da seguire, personale da impiegare e come comportarsi nel caso – ad esempio – di mancato decesso. Un iter che non può essere tagliato per la pressione sull’opinione pubblica di casi drammatici di cronaca come quelli che vengono proposti in questi giorni.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI