giovedì 13 settembre 2012
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Se confermata, l’annunciata ripresa del confronto sulla legge che introduce le Dichiarazioni anticipate di trattamento offrirebbe un segnale molto importante. E non solo nei palazzi della politica, ma soprattutto per coloro che anche nella società civile sono convinti della necessità di approvare finalmente questa legge. Le motivazioni, culturali e antropologiche, non mancano: c’è ben più di una buona ragione per chiedere di non insabbiare la legge.
Ridare fiducia e ruolo alle famiglie. «Serve una legge nell’attuale momento di provvisorietà del nostro Paese», commenta Fulvio De Nigris, direttore Centro studi ricerca sul coma-Gli amici di Luca. «Si cerca di tutelare la disabilità senza rincorre il "fine vita" come argomento prioritario della nostra vita. Non si vede, per non capire. E chi vive il coma, assieme alle persone che lo circondano, rimane solo. In questo clima di ignoranza (nel senso di chi ignora), di chi bravo maestro del cinema non documenta una vera condizione, di chi scrive parlando di "bottoni premuti nella clandestinità" senza rivelare dove, chi tutela le famiglie nel loro disperato diritto di cura? Questa legge, anche se non la migliore possibile, può ridare fiducia e attenzione ai ruoli e alle regole. Che sono regole di libertà, contro la paura. Cito Paolo Borsellino: chi ha paura della morte muore ogni giorno, chi non ha paura, muore una volta sola».
Ribadire indisponibilità e dignità di ogni vita. «Questa legge è necessaria perché il valore della vita e la salvaguardia della libertà e della dignità della persona umana non possono più essere lasciate a una decisione dei giudici» conferma Mario Melazzini, presidente Aisla (Associazione italiana sclerosi laterale amiotrofica). «La legge proposta guarda al bene della persona, ribadisce l’inviolabilità e l’indisponibilità della vita umana, il "no" all’abbandono, all’accanimento terapeutico, all’eutanasia e al suicidio assistito. È una questione totalmente "laica" che riguarda non solo le persone fragili, malate o disabili ma ognuno di noi perché afferma la dignità della vita in qualsiasi condizione e questa è una garanzia per tutti. È inaccettabile avallare l’idea che alcune condizioni di salute rendano indegna la vita e trasformino il malato o la persona con disabilità in un peso sociale. Un pregiudizio che aumenta la solitudine dei malati e delle loro famiglie, introduce nelle persone più fragili il dubbio di poter essere vittima di un programmato disinteresse da parte della società e favorisce decisioni rinunciatarie».
Tutelare i pazienti cronici. «Personalmente resto dubbioso sul normare situazioni peculiari quali lo stato vegetativo e di minima coscienza, per via della loro definizione clinica molto "scivolosa" grazie ai continui progressi delle acquisizioni scientifiche. Ma questa legge, di fatto, rafforza alcune tutele», chiarisce Paolo Maria Rossini, ordinario di Neurologia e direttore dell’Istituto di Neurologia all’Università Cattolica. «Soprattutto nei casi di patologie croniche, non suscettibili di miglioramenti spontanei e indotti dalle cure, in molti casi si configuravano situazioni di potenziale accanimento che ora vengono normate e regolate, tutelando il diritto di ciascuno di sottoporsi o meno a procedure diagnostiche e terapeutiche. Attenzione al problema del nutrimento artificiale, che riguarda non solo i pazienti in stato vegetativo (poche migliaia), ma moltissimi pazienti con patologie neurodegenerative croniche in fase avanzata e moltissimi cerebropatici infantili: non hanno bisogno di alcun supporto di macchinari, ma non sono in grado di nutrirsi e idratarsi da soli a causa della loro patologia. Cosa succederà per questo piccolo esercito di inermi?».
 
Un’etica della vita come etica sociale. «L’approssimarsi del termine della legislatura impone ai parlamentari tutti un supplemento di assunzione di quella responsabilità che ha caratterizzato il dibattito in questi anni» esorta Lucio Romano, presidente nazionale Scienza & Vita. «Che la legge sia discussa quanto prima è richiesta di tanti. Lo impone il dibattito che ha coinvolto la società civile, lo giustificano le molteplici audizioni parlamentari, lo chiede la politica intesa come etica della convivenza. Non ultima l’istanza che ineludibilmente emerge dai valori di un’etica della vita che sappia opporsi a qualsiasi forma sia di accanimento clinico sia di eutanasia, palese od occulta, in nome di fuorvianti istanze di pietas. Declinare in maniera virtuosa l’alleanza tra paziente, familiari e medico deve rappresentare, a livello legislativo, la saggia coniugazione tra diritto alla cura e morire con dignità umana, che non significa ostinazione o accanimento, né abbandono o soppressione. Pur nelle limitazioni proprie di ogni legge, quella al Parlamento cerca di dare una risposta ragionevole e certamente non confessionale in merito».
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