giovedì 19 settembre 2013
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In queste settimane l’Australia è diventata l’ultimo campo di battaglia per gli attivisti a favore della maternità surrogata (e del suo business): da quando ne è stato proibito l’uso commerciale, dicono, gli aspiranti genitori sono costretti a un esodo. Così, come già successo con il Regno Unito quando venne limitato il pagamento di ovociti «al solo rimborso spese», anche in Australia si maschera, dietro argomentazioni sul «giusto compenso» da sindacalisti delle pance e «difficoltà delle famiglie a orientarsi» nella Babele della fertilità, il fatto crudo che non ci sono donne australiane disposte a portare in grembo gratis un figlio altrui. Mentre nei Paesi più poveri un figlio si può ancora portare a casa al costo di un’automobile. Per cercare una madre surrogata si guarda ai Paesi in cui il prezzo è più basso: lo dimostrano gli Stati Uniti, in cui gli aspiranti genitori volano in America Latina o Asia. A sentire Sam Everingham – che con il suo compagno ha fondato Surrogacy Australia – il suo Paese è in emergenza-uteri-in-affitto, e non è più solo una questione gay. Uno studio condotto su 288 coppie dalla sua organizzazione (che funziona anche da potente gruppo di pressione politico) svela che negli ultimi anni il numero delle coppie eterosessuali che hanno siglato un contratto per un utero sarebbe passato da un terzo scarso a due terzi del totale. Sono quelli, spiega Everingham alla stampa, che hanno inutilmente tentato per anni la gravidanza in provetta. In attesa di diventare una potenza industriale nel campo del bricolage di neonati, però, l’Australia – dice Everingham – «è diventata uno dei maggiori mercati internazionali di surrogate»: poco ricorso all’adozione internazionale, donne che decidono tardi di avere un figlio e ricchezza sufficiente a comprarsene uno all’estero. Tanto che a dicembre il Consiglio nazionale degli avvocati di famiglia dovrebbe stilare un report su tutti i pasticci normativi causati da questo turismo. Negli ultimi anni i bambini australiani nati in India sono triplicati, così come quelli partoriti in Ucraina o Thailandia, nuovo outlet delle pance. Per perorare la causa del pagamento dell’utero, una autorevole professoressa dell’Università di Sydney, Jenni Millbank, ha scritto sul britannico Guardian che bisognerebbe permettere uno sfruttamento commerciale degli uteri, «seppur cauto». Questo per favorire la sicurezza delle pratiche mediche, incrociare domanda e offerta, aiutare gli aspiranti genitori a seguire un percorso lineare dal desiderio al bimbo, consentire loro di essere coinvolti. In Australia, spiega Millbank, «maternità a scopo altruistico» significa che tutti, dai medici agli operatori sanitari, sono pagati per il loro lavoro, «tranne la madre». Chissà dov’è finita adesso tutta quella gratuità, quel «dare l’unica speranza a una coppia infelice», quel «non si offre il proprio grembo per necessità economiche, ma per puro altruismo» che ci hanno spacciato negli anni per farci credere che vietare la maternità surrogata significasse privare persone addolorate del generoso dono di una donna.
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