giovedì 29 novembre 2012
Il governo ha presentato l’atteso ricorso contro la sentenza con cui la Corte europea per i diritti dell’uomo aveva censurato il divieto di diagnosi selettiva sull’embrione nella legge 40.
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Presentato ieri il ricorso italiano contro la sentenza di primo grado della seconda sezione della Corte di Strasburgo, che aveva condannato il 28 agosto scorso l’Italia per il divieto di diagnosi preimpianto contenuto nella legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita. «La decisione italiana di presentare la domanda di rinvio alla Grande Chambre della Corte europea per i diritti dell’uomo – ha precisato ieri sera un comunicato di Palazzo Chigi – si fonda sulla necessità di salvaguardare l’integrità e la validità del sistema giudiziario nazionale, e non riguarda il merito delle scelte normative adottate dal Parlamento né eventuali nuovi interventi legislativi». La domanda di rinvio, aggiunge la nota del governo, «si è resa necessaria in quanto l’originaria istanza è stata avanzata direttamente alla Corte europea per i diritti dell’uomo senza avere prima esperito – come richiede la Convenzione – tutte le vie di ricorso interne e senza tenere nella necessaria considerazione il margine di apprezzamento che ogni Stato conserva nell’adottare la propria legislazione, soprattutto rispetto a criteri di coerenza interni allo stesso ordinamento».
Sicché, si argomenta nel ricorso (presentato nell’ultimo giorno utile), «la sentenza ha conferito di fatto alla seconda sezione il potere di decidere su una questione sensibile prima della giurisdizione nazionale». Infatti nella decisione della Corte non è stato rispettato il criterio vigente per ammettere una istanza sollevata da un cittadino dei Paesi membri: cioè il fatto che siano stati esperiti tutti i livelli di giudizio della magistratura nazionale. Questo non è avvenuto nel caso della coppia richiedente Costa-Pavan (entrambi portatori sani di fibrosi cistica) che si è rivolta a Strasburgo sostenendo che il divieto di diagnosi preimpianto viola il loro diritto al rispetto della vita privata e familiare.L’argomentazione italiana prosegue mostrando come nella sentenza sia stata anche modificata la richiesta originaria dei richiedenti che verteva sul rispetto della Convenzione europea. Invece i magistrati della Cedu si sono espressi su una presunta mancata coerenza delle legge 40 con la legge sull’aborto. In questo quadro la seconda sezione di Strasburgo non ha precisato per quali ragioni specifiche e in che misura il diritto invocato dai richiedenti viola la convezione europea. «Un desiderio non costituisce un diritto», specifica il ricorso.
La seconda sezione di Strasburgo ha inoltre creato «un nuovo obbligo di coerenza del diritto interno». Ma nello specifico l’incoerenza tra legge 40 e 194 riscontrata dalla Cedu non sussiste. Perché in Italia la possibilità della donna di abortire non è nella 194 un diritto in sé, bensì la deroga al principio della protezione della vita prenatale più volte affermato dalla Consulta. È chiaro dunque che il divieto di attentare alla vita prenatale è perfettamente coerente con la proibizione della diagnosi preimpianto, e l’esistenza di una deroga non contraddice questi valori. Tale deroga alla tutela del concepito consente a titolo eccezionale l’interruzione della gravidanza nella 194, solamente se la vita o la salute fisica e psichica della madre è a rischio. Dunque, a differenza della diagnosi preimpianto, l’aborto nella legge 194 non è permesso per evitare di avere un figlio malato. La sentenza invece vuol fare di una eccezione un principio, e quindi riorganizzare il diritto italiano alla luce di questa eccezione. L’Italia inoltre lamenta il fatto che la Corte non ha rispettato un criterio-guida della sua giurisprudenza: il rispetto del margine di apprezzamento della legislazione nazionale in questioni eticamente sensibili.
«Il ricorso del governo italiano – osserva la costituzionalista Lorenza Violini – è ampiamente condivisibile sia sul piano tecnico che sostanziale», perché la sentenza impugnata ha scambiato il parametro della coerenza con la Convenzione con la presunta individuazione di una incoerenza nella normativa italiana, «letta con un’ottica non condivisibile: infatti nel nostro Paese non esiste un "diritto di aborto"». Sul piano sostanziale, aggiunge la giurista, diversamente dal criterio seguito dal tribunale che fa capo al Consiglio d’Europa, si deve tener fermo il principio che «il legislatore nazionale è nella migliore posizione per esprimere una valutazione adeguata su norme che toccano questioni eticamente sensibili». Inoltre «quand’anche fosse sensato un confronto tra la legge 40 e la 194, esso è mal posto perché compito del legislatore, in base al principio democratico, è quello di aggiornare le norme sulla base del progresso scientifico e tecnologico. Quindi valutare una legge sulla base di un articolato promulgato più di 25 anni prima non risponde a un parametro costituzionale». «Ottima e doverosa iniziativa quella del governo italiano a difesa di una legge decisa dal Parlamento e ratificata da un referendum», commenta l’ex sottosegretario alla Salute, Eugenia Roccella, che sollecita ora l’approvazione delle linee guida per la legge 40.
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