martedì 27 maggio 2025
I maggiori esperti italiani nelle terapie prenatali e nella chirurgia mininvasiva invitati dalla Fondazione Il Cuore in una Goccia presso l’hospice perinatale del "Gemelli" intitolato a Madre Teresa
Un bambino in braccio a sua madre a una manifestazione della Fondazione Il Cuore in una Goccia

Un bambino in braccio a sua madre a una manifestazione della Fondazione Il Cuore in una Goccia - .

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Molti hanno 20 anni. Studiano, fanno sport, sognano, come tutti i coetanei. E con la loro esperienza dimostrano in concreto che alcune malformazioni del feto non sono affatto un limite. Il 23 maggio all’Università Cattolica di Roma, al Corso di formazione organizzato dalla Fondazione Il Cuore in una Goccia, di storie di piccoli pazienti, ormai cresciuti, ne sono state raccontate tante. Perché, come recitava il titolo dell’incontro – dell’incontro – “Diagnosi prenatale e malformazioni congenite. Un cambio di prospettiva attraverso l’esperienza dell’Hospice perinatale” – la scienza ha fatto ormai grandi passi avanti, e alcune patologie del bambino ancora in grembo possono essere curate grazie a diagnosi tempestive, strumentazioni all’avanguardia e assistenza di alto livello.

«La consulenza è fondamentale per chiarire come malattie spesso considerate non curabili possono invece essere trattate con ottimi risultati», spiega Giuseppe Noia, direttore dell’Hospice perinatale - Centro per le Cure palliative prenatali e post-natali Santa Madre Teresa di Calcutta del Policlinico Gemelli e presidente della Fondazione il Cuore in una Goccia Onlus. Con casi concreti, dati aggiornati e evidenze scientifiche, gli esperti hanno smontato alcune false credenze legate alle maternità difficili. «Spesso non si tiene conto di una esperienza trentennale, in cui tante patologie divengono invece curabili», assicura Noia, dati alla mano: 8mila i bambini trattati in utero, 6mila per piccole patologie.

Giuseppe Noia con un bambino a una manifestazione nazionale della Fondazione Il Cuore in una Goccia

Giuseppe Noia con un bambino a una manifestazione nazionale della Fondazione Il Cuore in una Goccia - .

«Vogliamo dare speranza alle mamme che spesso si sentono dire che non c’è nulla da fare – aggiunge Noia – facendo vedere quello che è successo nel tempo, sia dopo gli interventi di terapia sia di palliazione. Si tratta per esempio di trattamenti che evitano che il feto possa sentire dolore, impediscono che il bambino vada in scompenso cardiocircolatorio e possa morire. Evitiamo che il dolore possa dare alterazione allo sviluppo neuro-cerebrale del nascituro». Dopo la nascita, la presa in carico non si ferma: «Alcune malformazioni molto spesso possono essere curate pre-natalmente e post-natalmente. Oltre alla risposta scientifica diamo anche un sostegno psicologico – ricorda Noia – In dieci anni di attività della Fondazione il Cuore in una Goccia, circa 900 famiglie hanno chiesto di essere accompagnate in questo percorso di cura o di palliazione».

I risultati finora ottenuti dimostrano del resto l’efficacia degli interventi. «La terapia prenatale è giustificata quando il trattamento è più utile prima della nascita piuttosto che dopo - precisa Marco De Santis, responsabile di Prevenzione, diagnosi e terapia di difetti congeniti fetali del Gemelli –. Sappiamo che alcune malformazioni, per la loro storia naturale, se trattate in utero hanno un esito migliore. La spina bifida è una di queste situazioni: nel corso della gravidanza il danno anatomico peggiora, e quindi poter fare un intervento prenatale sicuramente riduce alcuni rischi, anche se li elimina completamente. Per esempio, la prognosi è migliore per quanto riguarda la capacità di camminare e diminuisce poi la necessità di fare anche ulteriori interventi dopo la nascita; migliora l’autonomia del bambino e quindi la qualità della vita».

Le tecniche utilizzate dagli esperti sono del resto all’avanguardia. «La possibilità di intervento in utero – spiega De Santis – può essere diversa: c’è la tecnica a utero aperto, oppure in endoscopia, tipo la fetoscopia. Sono tecniche ancora in via di miglioramento, meno invasive e quindi anche più efficaci anche per la salute della mamma». Il supporto della tecnologia è ormai fondamentale. «La chirurgia pediatrica ha fatto passi da gigante negli ultimi venti anni – ricorda Fabio Chiarenza, direttore di Chirurgia Pediatrica dell’Ospedale San Bortolo di Vicenza, Centro regionale di riferimento per la Chirurgia e Urologia mininvasiva pediatrica e neonatale –. Sono state introdotte nuove tecniche mininvasive: utilizziamo strumenti molto piccoli per accedere alle cavità corporee del bambino, senza grandi incisioni. Si tratta di tecniche che sono state mutuate dalla chirurgia generale, e utilizzate già da 30 anni. La difficoltà consisteva nel riuscire ad applicarle nel neonato».

In effetti, la tecnica non è disponibile in tutti gli ospedali. «Solo il 45 per cento a livello nazionale fa routinariamente chirurgie pediatriche mininvasive, nel neonato addirittura si scende al 5-10 per cento – precisa Chiarenza –. La chirurgia mininvasiva nel neonato è molto difficile, però permette di ottenere risultati eccezionali». Ma servono competenze di alto livello. «Per intervenire sul neonato occorre avere abilità molto avanzate e strumentazioni adeguate. Purtroppo le aziende non investono su questi strumenti, perché danno poco impatto economico: mentre in Paesi in via di sviluppo la percentuale di bambini interessati è del 65 per cento da noi scendiamo al 20».

Eppure, si potrebbero dare speranze concrete a tante mamme. «Noi siamo stati pionieri, abbiamo pazienti operati con tecnica mini invasiva che hanno già 18-20 anni, fanno sport e non hanno alcun tipo di malformazione. A volte, purtroppo, molte donne abortiscono per patologie anche piccole».

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