
Il Palazzo della Consulta a Roma, sede della Corte costituzionale - Ansa
Con la sentenza 66 depositata il 20 maggio la Corte costituzionale, all’esito del giudizio di costituzionalità sull’articolo 580 del Codice penale che il 26 marzo 2025 aveva visto l’intervento di quattro malati contro il suicidio assistito, non solo non estende le ipotesi di suicidio assistito non punibile ma afferma il dovere stringente dello Stato di garantire sostegno sociale e sanitario al malato.
La Consulta dichiara non fondate le questioni di costituzionalità sollevate dal Tribunale di Milano sull’articolo 580 del Codice penale e ribadisce che lo spazio di non punibilità dell’aiuto al suicidio deve rimanere ancorato alla necessità di un trattamento di sostegno vitale, cioè di un trattamento necessario per lo svolgimento di funzioni vitali del paziente, la cui omissione o interruzione ne provocherebbe la morte a breve termine. È confermato, dunque, che l’aiuto al suicidio non è punibile solo quando ricorrono le 4 condizioni della patologia irreversibile, della sofferenza intollerabile, della capacità di decisioni libere e consapevoli e del trattamento di sostegno vitale.
Smentendo definitivamente l’idea per cui l’articolo 580 sarebbe espressione di un dovere della persona di vivere, si conferma che la disposizione sospettata di incostituzionalità risponde, piuttosto, al dovere dello Stato di tutelare ogni vita umana. La parola d’ordine è, quindi, solidarietà, non libertà di darsi di morte.
La tutela della vita umana, nella sentenza appena depositata, si pone su due livelli. Il primo è quello di garantire che l’eventuale scelta per la morte non sia frutto di interferenze indebite nelle scelte di persone deboli e vulnerabili. A tal proposito, la Corte non solo non allarga l’area di non punibilità ma ribadisce il carattere essenziale anche delle condizioni procedurali ai fini di un giudizio di non punibilità dell’aiuto al suicidio, vale a dire del rispetto della disciplina di cui agli articoli 1 e 2 della legge 219 del 2017, della previa verifica sulla sussistenza delle 4 condizioni sostanziali da parte del Servizio sanitario nazionale, dell’intervento di un parere del comitato etico territoriale.
Il richiamo all’articolo 1 della 219 del 2017 (sulle Disposizioni anticipate di trattamento), in particolare, è funzionale – dice la Corte – alla prevenzione del suicidio assistito, perché garantisce che l’eventuale scelta in tal senso avvenga nel contesto di una seria assistenza medica nel cui ambito devono essere offerte al paziente anzitutto le cure palliative.
Il secondo livello di tutela si pone su un piano più generale e mira a contrastare le «derive sociali o culturali che inducano le persone malate a scelte suicide, quando invece ben potrebbero trovare ragioni per continuare a vivere, ove fossero adeguatamente sostenute dalle rispettive reti familiari e sociali, oltre che dalle istituzioni pubbliche».
Il dovere dello Stato nei confronti dei soggetti vulnerabili, pertanto, non si esaurisce nel garantire che la scelta di chi intende chiedere la morte sia libera da intromissioni esterne, ma si estende a contrastare la diffusione di una «pressione sociale indiretta» sulle persone malate, anziane e sole, «le quali potrebbero convincersi di esser divenute ormai un peso per i propri familiari e per l’intera società». Da qui deriva – si legge in sentenza – «il dovere della Repubblica di rispondere all’appello che sgorga dalla fragilità, in modo che una persona malata possa avvertire la solidarietà attorno a sé non a tratti, non a prolungate intermittenze, ma in via continuativa, attraverso un percorso di effettiva presa in carica da parte del sistema sanitario e sociale».
La sentenza conclude, richiamando il parere del 14 dicembre 2023 del Comitato nazionale per la Bioetica in materia di cure palliative, con uno stringente, rinnovato appello al legislatore perché ne implementi le reti. Quanto a una legge sul fine vita, il legislatore intervenga – dice la Corte – ma nel porre i limiti di questo intervento i giudici costituzionali non richiamano più in senso forte la legge 242 e riconoscono che a essere vincolante per il Parlamento sia piuttosto «il rispetto delle esigenze richiamate ancora una volta dalla presente pronuncia».
I difensori dei quattro malati (Dario Mongiano, Maria Letizia Russo, Lorenzo Moscon e P.G.F.) intervenuti davanti alla Consulta, con i loro assistiti, hanno manifestato soddisfazione per l’esito del giudizio, nel corso del quale non solo non si è estesa la disciplina di accesso al suicidio assistito ma si è ribadita l’urgenza di politiche di prevenzione e cura per le persone malate e fragili. La scelta dei quattro pazienti di chiedere di intervenire nel giudizio ha avuto un ruolo importante nella soluzione della vicenda, consentendo per la prima volta in aula un confronto schietto e reale tra posizioni contrastanti.
Resta il fatto che, sul piano normativo, qualsiasi disciplina regolativa del suicidio assistito e dell’eutanasia è irrimediabilmente contraria alla dignità della persona e al riconoscimento del valore di ogni vita umana, che ne deve impedire la soppressione a prescindere dalle condizioni in cui il soggetto vive.
*Università degli Studi del Salento
**Università Europea di Roma
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